Antonio, baluardo del Bene
Sono a bordo di un treno diretto da Padova a Napoli, che oggi si raggiunge comodamente in poche ore traversando alcuni dei più bei paesaggi d’Italia. Da Bologna, sotto le lunghe gallerie, si corre quasi in apnea, anche se un veloce sprazzo di luce, ogni tanto, illumina selvaggi scorci e panorami inaspettati dell’Appennino, dove negli ultimi anni da ogni parte avanzano i boschi, che stanno riconquistando i terrazzamenti antichi e i pendii coltivati per tanti secoli da generazioni di laboriosi antenati. Sembra strano, a noi che tanto ci battemmo per salvare gli alberi del Veneto, che dissennate politiche di urbanizzazione selvaggia continuavano ad abbattere, ma oggi davvero i parchi nazionali, i rimboschimenti e una coscienza collettiva più matura hanno portato risultati. E tuttavia il verde cresce anche perché in montagna gli abitanti calano… Ma poi, dopo Firenze, la lunga strada per Roma alterna terreni fittamente coltivati a incantevoli radure solitarie – dove la fantasia facilmente immagina elfi e coboldi – e a misteriosi laghetti nascosti tra la vegetazione, tersi specchi d’acqua appena increspati da un vento leggero. Qua e là, dai due lati del treno, passano veloci i paesi turriti costruiti in cima a colli morbidi o scabri, ricoperti di verde o invece bellicosamente piantati sul tufo, come sentinelle senza tempo a guardia della campagna.
Italia di mezzo: sconosciuto luogo materno, vissuto e coltivato da millenni. Passiamo Rieti, l’umbilicus Italiae, dove nella solitaria piazzetta di San Rufo è segnato il punto centrale del nostro Paese, il luogo – dicevano gli antichi – da cui tutte le strade si irradiano. E dovunque, in ognuno di quei paesini o cittadine di cui l’Italia è tanto ricca, c’è un santo patrono, ma dovunque c’è anche Antonio. Così ai miei occhi fantasticanti si sono presentati, come in una sfilata protettiva e affettuosa, tutti i sant’Antonii della penisola. Una teoria meravigliosa che si perdeva nello spazio infinito. Ed ecco decine e decine di rappresentazioni del Santo, tutte simili e tutte diverse, ognuna con qualche dettaglio particolare, con posizioni o colori variati, come erano state immaginate e realizzate dagli ignoti artefici che volevano dare alla propria opera un tocco personale: giovane o anziano, con un solo giglio grandissimo o con un ramo fiorito, col Libro o senza Libro, col Bambino in pose differenti, con le manine da una parte o dall’altra, ma sempre confortevolmente rannicchiato nel cavo del suo braccio.
E mi è sembrato di percepire quasi fisicamente questa catena del Bene, dall’uno all’altro, da un dipinto a una statua a un altare; e che essa circondi il nostro Paese come un intreccio, una sequenza di luci fedeli, ora più scintillanti ora più fievoli, ma sempre ostinate nel dare luce, consiglio, conforto contro ogni timore e ogni avversità della vita. Sempre e dovunque, nel paesino semi abbandonato come nella grande Basilica, resiste il legame di questa tradizione ininterrotta. Dagli anni brevi della vita terrena di Antonio essa si prolunga e prosegue fino ai nostri giorni, ricca di linfe e di energie sempre nuove, frutto di un amore rinvigorente come un nido caldo dove ritemprarsi. E anche di una devozione che i secoli non hanno attenuato, ma diffuso ovunque: perché Antonio non offusca il culto dei santi patroni che sono venerati nell’Italia dei semplici cuori (come nei semplici cuori che battono ovunque nel vasto mondo), ma lo fortifica e lo sostiene. Così l’umile Antonio risplende attraverso i suoi simboli: la sua spada lucente è il fiore bianco del giglio, la sua solida dottrina è il Libro, l’amore traboccante che lo consuma, il Bambino. E lui sta lì, fermo, a significare il Bene, a indicare il Bene, forte in mezzo all’oscura minaccia del Male che rischia di travolgerci.