Antonio di chi?
Già, al termine del nostro cammino sulle tracce di sant’Antonio su è giù per l’Italia (ma in realtà siamo partiti da molto più lontano, ormai un paio di anni fa, ricordate?), a questo punto può mai sant’Antonio essere solo e per sempre «di Padova»? In questa città, che per definizione è per tutti la «città del Santo», Antonio trascorse in realtà solo pochi mesi, gli ultimi della sua vita terrena. E, certo, la Basilica padovana che ne conserva il corpo e altre preziosissime reliquie, non è roba da poco. Ma forse neanche questa è scusa sufficiente per pensare che Antonio sia più nella sua visitatissima tomba che non ovunque, in giro per il mondo, ci sia un uomo o una donna, magari pure anziani e ignoranti, e qualche volta persino neppure di fede cristiana, che sanno indubitabilmente di avere in lui un santo per amico. Del resto, diceva Bai Juyi, un antico poeta giapponese, la montagna appartiene a chi ama la montagna, e allo stesso modo i punti panoramici non hanno mai avuto padrone, ma sono di chiunque li contempli.
Allora siamo punto e a capo: Antonio di chi? Oh, sicuramente di tante cose! Intanto, anagraficamente e perciò in maniera certa, «da Lisbona». Poi, a furor di popolo, «di Padova», almeno per adozione. Io aggiungerei senz’altro «di Francesco d’Assisi». Nel senso che, «rubato» ai canonici agostiniani, è proprio aderendo al movimento spirituale del Poverello che Antonio diventerà quel grande santo che tutti conoscono. Ma poi penso che Antonio, soprattutto, è «dei bambini». Quelli che per primi, il 13 giugno 1231 – come e da chi l’avessero saputo chi lo sa? –, diedero l’annuncio della sua morte correndo a perdifiato per le vie di Padova. Quelli protagonisti di tanti suoi miracoli: bambini che allora come ora, basta che mamma e papà si distraggano un attimo, se ne vanno inesorabilmente a caccia di guai. Lo è di tutti quei bambini che, soprattutto una volta, venivano vestiti come lui e, spesso, portati devotamente davanti alla sua tomba: tanti sant’Antonio in miniatura, per ottenere un po’ più di pace e di salute, quando la croce si fa troppo pesante.
Antonio non è di «una» cultura né lo troviamo sotto una sola bandiera. Sul suo passaporto ci sta scritto: «di nazionalità umana», abitante del villaggio globale. Non è «dei dotti e dei sapienti», che pure hanno scritto e continuano a scrivere fiumi d’inchiostro su di lui, presumendo di esserne i detentori della dottrina. Appena può se ne scappa in mezzo alla gente, a cui sente di appartenere e l’unica che davvero lo riconosce: lui è «dei semplici», «degli uomini e delle donne». Lui non lo trovi infatti «dentro», è «di fuori»: fuori dai libri e fuori dai palazzi, lungo le strade percorse dagli uomini, un posticino in ogni pur piccola chiesa e persino in tante edicole o cappelline votive, in mezzo ai campi o agli incroci, in cui fa bella mostra di sé, con giglio, libro o Bambino in braccio. Lui è «di mio nonno», che nell’essenzialità pratica dei contadini e nel sesto senso di chi nella vita ha imparato soprattutto a soffrire, andava dicendo: lui è «dei nostri». E come «i nostri» del film western che guardavamo da bambini, arriva sempre a salvarci. È «dei poveri», schierato con loro contro tutti gli abusi e i soprusi. Perché lui è fondamentalmente «di Dio», unica autentica garanzia di libertà.Non è di coloro che non si aspettano più niente, che hanno smesso di sognare e di lottare, ma «dei giovani». Di coloro che guardano i gigli dei campi e pensano: se il buon Dio ha cura di loro, chissà quanta ne avrà di noi!Che sarà pure un pensiero tanto infantile, ma così evangelico…
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!