Antonio e i potenti
Ma poi, che cosa se ne fa uno di tutto questo «ben di Dio»?! Voglio dire, siamo d’accordo che la fede è un dono, per giunta gratuito, che, seminato nella nostra vita, cresce e porta frutto grazie anche alle cure e attenzioni che potremo dedicargli, ma poi che succede? Tutto prosegue indifferentemente, noi ci teniamo queste «consolazioni interiori», ce la vediamo con la nostra coscienza e attraversiamo incolumi l’esistenza? Tanto ascolto della Parola di Dio, di quella scritta nei libri sacri e di quella di cui lo stesso Dio dissemina le nostre giornate, alla fin fine che cosa ha lasciato in Antonio? Abilità esegetiche, capacità di spiegare questa Parola, dottrina teologica sicura, d’accordo. E dopo? Se credere è il punto più concreto dell’uomo, e lo è, un’adesione di fede inevitabilmente deve diventare tanto altro. O, meglio, semplicemente tutta la nostra vita.
E siccome il nostro sant’Antonio è convinto che la vera scommessa del cristiano non è neanche tra fede e ateismo, ma tra fede e idolatria, non può tacere: lì dove e ogni qual volta un «idolo» – il successo a scapito degli altri, il potere, la forza, l’imbroglio e la falsità nei confronti dei più deboli, il mito della razza, l’egoismo promosso a realizzazione di sé, la ricchezza non condivisa, la corruzione, l’illegalità che crea ingiustizia – si sostituisce prepotentemente alla dignità indiscutibile di ogni uomo e donna, tutti ugualmente figli e figlie di quel Dio che noi preghiamo al plurale, Padre nostro, e non mio. In questo senso l’ascolto profondo e attento di Dio è premessa dell’indignazione, e solo quell’indignazione che sgorghi da questo ascolto è tale ed evangelicamente capace di smascherare il «vitello d’oro» di turno.
La frequentazione assidua della Bibbia ha suggerito ad Antonio una parola chiave, che è allo stesso tempo stile di vita, discernimento quotidiano e impegno: parresia, ovvero il coraggio di dire la verità, di essere se stessi fino in fondo, anche davanti al potere, comunque esso si presenti. Un mix di fede, audacia, libertà, franchezza, coraggio, indignazione, la sicurezza di chi non ha nulla da perdere, di cui scrive e testimonia l’apostolo Paolo, non tutta farina del proprio sacco ma dono di Dio (Ef 6,20; 1Ts 2,2), che il Vangelo riconosce a Gesù stesso (Mc 8,32; Gv 18,20). Un mix letale per gli uni e per gli altri, una scelta che non è mai senza effetti collaterali: esprimere la verità chiede sempre un costo – in amicizia, soldi, voti elettorali –, ma è altresì una scelta da cui dipende la nostra coerenza e umanità.
Raccomandato unicamente da questa parresia, Antonio poteva presentarsi senza paura davanti al sanguinario tiranno Ezzelino da Romano, a Verona, quando tutti si aspettavano che venisse trucidato seduta stante, talmente «fuori dai denti» erano le parole volate tra loro. E con lo stesso biglietto da visita poteva anche riprendere con forza i vescovi che vivevano indegnamente il loro ministero. Non è una scelta tattica definita a tavolino né il vezzo di essere «sempre contro», ma la resa quasi obbligata dell’innamorato: «Il Signore Dio ha parlato: / chi non profeterà?», confessa il profeta Amos (Am 3,8).
«E inarrestabile scorre la parola: / ora grido d’araldo, ora bisbiglio / implorante» (Annette von Droste-Hülshoff): Antonio resta fedele a questa esigente parola di verità fino in fondo. Parola smisurata, perché inafferrabile e irriducibile a compromessi o ingiustizie. «Odio gli indifferenti», confessava Antonio Gramsci. Anche noi: in nome di Gesù, di sant’Antonio, dei giovani turchi di Gezi Park, degli indignados spagnoli, di tutti i giovani calabresi raccontati nelle pagine del «Messaggero di sant'Antonio» di febbraio e di quelli del mondo. Perché il futuro ha loro in bocca…
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