Niente da dichiarare?
Davvero strano il nostro destino di cristiani. Ci aggiriamo tra miriadi di luoghi che concretamente raccontano la nostra fede: attraverso architettura, arte, riti, feste, musica e canti. E le reliquie? Ne siamo circondati! Abbiamo scheletri, frammenti ossei, veli, cinture, guanciali di pietra, sangue raggrumato, impronte sulla viva roccia, e tanto altro per la devozione o anche solo il gusto di ciascuno. Dei santi mostriamo la stanza dove sono nati, la fonte dove si sono abbeverati, l’albero che hanno piantato, la sedia dove si sedevano, la finestrella da cui scrutavano il cielo, la cella monastica dove sono morti, dove erano stati tumulati inizialmente e dove dormono il sonno eterno attualmente. E comunque biografie o leggende ci tramandano ogni loro singulto e sospiro. Tutto ciò, evidentemente, che male certo non fa, risponde però più alla nostra curiosità e al nostro bisogno di certezze, che il richiamo evangelico alla fede «nonostante tutto» accontenta solo in parte.
«Credere vuol dire “dare il cuore” (lat. credo, cor do). Figlio mio, dice Gesù, dàmmi il tuo cuore! (cf. Pr 23,26). Chi dà il cuore, dà tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio» (sant’Antonio, L’Ascensione del Signore). La nostra poca fede non tollera che alla fine ci sia qualche casella residua che non sia stata adeguatamente riempita. Temiamo le fessure da cui potrebbero sfiorarci spifferi che arrivano da chissà dove, portando profumi e temperature ignote. Provocandoci autentiche costipazioni spirituali. Come se fosse sempre il dettaglio minuzioso delle immagini a nutrire il nostro atto di fede, e non talvolta il loro contorno vago. Se provassimo invece ad ascoltare con rinnovato interesse i Vangeli che vengono proclamati a Pasqua, ci toccherebbe piuttosto stupirci del ben poco, almeno in particolari in qualche modo piccanti, che ci viene raccontato. Lasciando a bocca asciutta la nostra ingordigia di sicurezze. E incerta la nostra testimonianza: se niente sappiamo, che cosa mai potremo dichiarare agli altri?
Sappiamo solo di sguardi che cercano affannosamente, ma non riescono a posarsi su niente. Mani che vorrebbero toccare, stringere, e si ritrovano ad afferrare solo aria. Orecchie che ancora desidererebbero ascoltare «quelle» parole di vita, che accarezzavano cuore e intelligenza, ma ora odono solo il fruscio sottile del silenzio. Trovare qualche cosa di tangibile, reale, spendibile, su cui appoggiare la nostra debole fede. Eppure questo «niente» è tutto ciò che ci resta della risurrezione di Gesù, più qualche piccolo dettaglio: il gusto di quel pane spezzato all’ultima cena, la memoria di una promessa, una pietra rotolata via, un lenzuolo in disparte, forse anche qualche strana apparizione di angeli o giardinieri.
Troppo poche come reliquie. Per il resto, nulla. Nulla a cui appigliarsi, nulla per soddisfare la nostra curiosità, nulla da fotografare o da portarsi gelosamente a casa e da mostrare nelle occasioni importanti. Nulla, solo un grido represso in gola e un nodo allo stomaco. E il fiatone per il troppo correre e rincorrere tra Cenacolo e tomba lì nel giardino accanto al Golgota. Eppure c’è più in questo «nulla» che in tutti i nostri libri sacri: c’è tutta la fiducia che il Risorto ha per noi, c’è tutta la sua pazienza e speranza in ognuno di noi, c’è il suo rispetto per le nostre fatiche e lentezze, la sua misericordia per i nostri tradimenti, la sua simpatia per i nostri fragili desideri di amore e comunione. C’è il suo silenzio, perché ora parlino, seppur imperfettamente e poveramente, le nostre vite. Di noi, che a lui diciamo di credere…