Il potere terapeutico della parola
Ci voleva un pazzo per un’impresa tanto temeraria, come quella di redigere il dizionario generale della lingua inglese, il famosissimo Oxford English Dictionary. In realtà i pazzi furono due. Uno, il medico militare americano William Chester Minor era realmente schizofrenico. I traumi della guerra di secessione avevano prodotto in lui gravi disturbi mentali: paranoia, allucinazioni, attacchi di panico. L’altro protagonista fu lo scozzese James Murray, un erudito autodidatta, né laureato né tanto meno abilitato all’insegnamento, ma rapito dalla passione per le parole e affascinato dal sogno incredibile di mettere in ordine, dalla A alla Z, i vocaboli della lingua allora più parlata al mondo, l’inglese.
Dietro la firma di W.C. Minor, solerte collaboratore epistolare dello staff editoriale, si celava dunque un recluso nel manicomio criminale di Broadmoor. I primi lettori del Dizionario non lo sapevano. E non lo sospettava nemmeno Murray, il «professore» che coordinava lo staff redazionale. Quando scoppiò lo scandalo, i baroni dell’accademia meditarono di sospendere i lavori e di affidarli a responsabili più presentabili, sicuri e malleabili agli interessi di mercato.
Perché compilare un dizionario? E perché la Philological Society di Londra decise di farlo proprio allora? Di fatto furono coinvolte non solo le migliori menti letterarie dell’epoca, ma fu espressamente richiesto anche il capillare aiuto di privati cittadini, che spedirono sacchi di corrispondenza postale gonfi di appunti, citazioni rare, osservazioni bizzarre e proposte di glottologia. Organizzare un dizionario significa ripensare l’identità di un popolo di parlanti, significa elevare l’autoconsapevolezza dei cittadini, testimoniare la vitalità di molteplici voci espressive, prevenire i fraintendimenti, disseppellire idee dimenticate o soffocate.
Se ci fu una tentazione diabolica, fu quella di idolatrare un catalogo di nomi, dimenticando che lo spirito, che innova il patrimonio lessicale dei popoli, soffia sempre liberamente in direzioni imprevedibili, imprime cambiamenti, impara dall’esperienza. La lingua è come un organismo vivente, più complesso delle sue parti, più mobile dei suoi ingranaggi grammaticali, più sensibile alle trasformazioni ambientali di quanto lo siano le norme generali insegnate da una cattedra.
L’altro aspetto «bioetico» del film è l’accostamento tra la lingua, come famiglia di parole, e i gruppi sociali, come comunità che hanno credenze e valori. Se le persone umane sono parole incarnate in una vita, le parole sono per così dire dei soggetti intelligenti che interagiscono tra loro nella grande casa del linguaggio, una casa in cui avvengono incontri, scontri, traduzioni, tradimenti, rivelazioni, dimenticanze. In tematiche etiche controverse (come quelle relative al gender) sembriamo mancare di un linguaggio sufficientemente duttile, elastico, accogliente, per descrivere quello che sta avvenendo alle figure tradizionali di maschio o femmina, di marito o moglie, di figlio o figlia, di padre e madre.
La lingua italiana possiede due generi grammaticali (il maschile e femminile) per raggruppare gli individui. Ma non è sempre stato così: il latino e il greco (come accade tuttora per il tedesco) avevano anche il genere neutro, che era per lo più riservato alle cose inanimate, ma che serviva anche per accogliere parole insolite, bislacche, stravaganti, strane. Parole queer, si direbbe.
Il film tocca questioni di etica psichiatrica. La paranoia del medico aveva origine nel senso di colpa patito in una guerra sanguinaria. Nel corso della detenzione le condizioni cliniche di Minor cambiarono. Egli fu assalito dalla malinconia e dal desiderio di riparare. Rinunciò a privilegi e proprietà, per aiutare la famiglia del defunto.
La psichiatria oscilla nel film tra illuminate aperture educative e grossolane applicazioni di metodi brutali e invasivi. In realtà, il malato fu curato e salvato soprattutto grazie al linguaggio. Nel costruire il Dictionary i due protagonisti ricostruirono la loro mente, come navigando sul mare di un cinema infinito, in cui nuotano vocaboli e racconti segreti, delicati, improbabili.
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