Buon samaritano, l'arte del prendersi cura
Dispiace doverne prendere atto, ma molta gente, nella Vecchia Europa e dunque anche in Italia, si dice cristiana – più o meno in buonafede – senza aver la benché minima conoscenza della teologia, poco importa che si tratti delle Sacre Scritture o della dottrina sociale della Chiesa.
Questo è un fenomeno sintomatico del deficit di formazione, a livello soprattutto di catechesi, che riguarda molte comunità di credenti o presunti tali. Ad esempio, il dialogo – indipendentemente dalle sue declinazioni: culturale, interreligioso o ecumenico – risulta essere notevolmente ridimensionato nel dibattito sociale e politico, riducendosi a una sorta di manifestazione marginale nella condotta personale e collettiva del cristiano.
Lo stesso atteggiamento – che peraltro esclude l’incontro con ogni genere di alterità e dunque preclude il dialogo – può essere esteso al tema della solidarietà. Il fatto stesso che si ritenga una qualsivoglia persona «prossima» solo rispetto alla sua effettiva vicinanza geografica, la dice lunga. «Ama il prossimo tuo» diventa allora «ama quello a te vicino». E quindi solo se tutti attorno a te sono stati messi nelle condizioni di vivere bene, si potrà aiutare chi ha effettivamente bisogno in giro per il mondo.
Detto così sembrerebbe un ragionamento logico, in relazione soprattutto alla vexata quaestio della mobilità umana e dell’integrazione culturale, in un Paese come il nostro, o più in generale nella cornice del Vecchio Continente. Peccato però che nostro Signore Gesù Cristo, 2.000 anni fa, predicando a Gerusalemme e dintorni, abbia letteralmente ribaltato il senso e il significato del sostantivo «prossimo», almeno così come è comunemente inteso.
Emblematica è la parabola del Buon Samaritano, che troviamo nel vangelo di Luca (10,25-37). Alla domanda di un dottore della legge su chi fosse il suo prossimo, Gesù risponde operando un decentramento narrativo. C’è da considerare che a quei tempi, in Palestina, vi era un acceso dibattito tra le scuole rabbiniche su chi fosse il prossimo. Si andava dalla concezione più ristretta, «il prossimo è soltanto colui che appartiene al mio clan familiare o tribù», a quella più estensiva, giudicata quasi eretica – per noi oggi «buonista» – che includeva nel prossimo anche lo straniero che abitava dentro i confini di Israele.
Nel mondo ebraico, il prossimo era colui che era oggetto dell’amore. Mentre per Gesù l’interpretazione è radicalmente diversa. Nella parabola lucana si parla di un poveretto che era incappato nei briganti, durante un viaggio da Gerusalemme a Gerico, rimanendo sulla strada mezzo morto. Ebbene, sia il sacerdote che il levita, stando al racconto, passarono oltre, dunque non lo soccorsero, mentre il buon samaritano: «Lo vide. Gli si fece vicino», prendendosene cura, facendosi persino servo di quel poveretto.
E dire che gli ebrei guardavano i samaritani come il fumo negli occhi, considerandoli come dei veri e propri scomunicati! Ed ecco la domanda finale di Gesù al dottore della legge, esponente della nomenclatura religiosa del tempo: «Chi di questi tre – il sacerdote, il levita e il Samaritano – ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». E la risposta del dottore è: «Quello che ha avuto compassione», in quanto il prossimo non è colui che viene amato, ma colui che ama. È evidente che Gesù riesce a mettere con le spalle al muro il suo interlocutore dimostrando, ancora una volta, d’essere il Figlio di Dio per la sapienza del suo insegnamento.
Il pensiero di Nostro Signore è anni luce distante dall’interpretazione che di questi tempi viene data alla solidarietà cristiana e a ogni genere d’incontro con l’alterità.
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