Campaner, pianista per amore
Il suo primo pianoforte a coda aveva i tasti bianchi e rossi: un regalo della zia, allo scoccare dei 3 anni. «Era tutto in miniatura, graziosissimo. Suonavo, anzi strimpellavo, con le piccole dita, e mi divertivo a organizzare dei concertini per i pupazzi e le bambole: li sistemavo tutti sul divano e io mi mettevo al centro del tappeto. Come in un auditorium» sorride Gloria Campaner. Le sale da concerto e i grandi palcoscenici, poi, li ha conquistati sul serio: a soli 31 anni Gloria è pianista di fama internazionale, è stata ospite in Cina e in Armenia, a Stoccolma e alla Carnegie Hall di New York, a Parigi e in Brasile, perfino sull’Isola di Pasqua, e di recente è tornata anche in Sudafrica.
Ha affrontato le Sonate di Beethoven all’Accademia Filarmonica Romana, e a Torino il «Rach 2» di Rachmaninov con l’Orchestra della Rai diretta da Jurai Valčuha; poi, per il suo debutto a La Fenice di Venezia, le partiture di Schumann insieme a John Axelrod. In parallelo, con un’inesauribile curiosità e un entusiasmo contagioso, ha saputo anche scoprire ed esplorare altri orizzonti: il jazz con Franco D’Andrea e Stefano Bollani, la videoarte con Luca Scarzella o la danza contemporanea con le coreografie di Joost Vrouenraets. E l’eclettico violoncellista Giovanni Sollima ha scritto un brano, The lost book, appositamente per lei.
«Quando ero bambina il babbo mi accompagnava ad ascoltare jazz, e da ragazzina suonavo in una rock band. Mi sento in una continua voglia di incontrare e di imparare, in questo viaggio meraviglioso che è la vita» confida. Lo stesso viaggio che l’ha condotta anche a tu per tu con alcune tra le realtà più povere e dimenticate del mondo, per vari progetti sociali e solidali. Gloria Campaner ha portato la voce e la luce della musica ai giovanissimi delle favelas di Rio de Janeiro o nelle townships di Città del Capo, così come è stata protagonista di uno dei primi concerti classici in Myanmar, dove la dittatura non consentiva di ascoltare musica occidentale. Proprio là ha conosciuto Kevin, un ragazzino birmano che, grazie a lei, ha potuto coltivare il suo talento e la sua passione.
Msa. Gloria, quel primo pianoforte le ha aperto la strada. E quali maestri l’hanno accompagnata?
Campaner. Ci sono state delle guide cardinali nella mia vita musicale, a partire dalla mia prima insegnante Daniela Vidali: quando avevo 4 anni, per prima ha creduto in me e ha consigliato ai miei genitori di farmi studiare musica. Ho continuato con Bruno Mezzena della scuola di Arturo Benedetti Michelangeli, poi mi sono accostata alla scuola russa grazie a Konstantin Bogino e mi sono perfezionata a Karlsruhe con Fany Solter. Ho frequentato masterclass in tutto il mondo e oggi ho la gioia di potermi confrontare con la leggendaria Mitsuko Uchida: sono stata ospite al suo Marlboro Festival, una grande gioia.
Che cosa ha portato la musica nella sua vita?
Amore e armonia. Sono convinta che la musica sia essa stessa vita: del resto, il suono è una vibrazione e si muove di energia e di amore. Non riuscirei a immaginare la mia vita senza la musica: per me è un abbraccio, la possibilità di riconoscere un codice universale che non ha paragoni nelle parole, nei numeri, nelle sillabe. È per questo che i miei interessi spaziano oltre la classica: durante i miei viaggi ascolto strumenti che hanno diverse accordature, amo sentire suoni nuovi, intervalli differenti, il folklore.
E che cosa porta la musica nella vita delle persone?
Credo che cambi la vita. È fondamentale il modo in cui ci si pone all’ascolto, ma è importantissima anche la quantità di amore nel messaggio musicale che si trasmette. Il talento è uno strumento che viene dato da Dio, non si discute: tuttavia, per essere davvero grande, un artista deve avere tecnica (ed esercitarsi sempre per migliorarla), ma anche un animo buono. Penso che così si possa riuscire a fare tanto.
Ne ha avuto esperienza?
Sì, per esempio la scorsa estate negli Stati Uniti sono stata invitata a tenere un concerto molto speciale al più grande centro di ricerca per bimbi sordo-ciechi, la Utah School for the Deaf and Blind: grazie a tecnologie avanzatissime, il suono del pianoforte è stato inviato ad apparecchi installati sulla testa dei bimbi, che così hanno potuto per la prima volta «ascoltare» la musica, tramite le vibrazioni amplificate. Ho eseguito Beethoven e Chopin, e mi sono accorta che i ragazzi erano come rapiti. C’era solo la musica, tutt’attorno il silenzio assoluto. Un’esperienza di infinita comunione: tutti ci siamo sentiti come inondati di un balsamo per l’anima. Per me, quasi un’auto-terapia.
E come è arrivata a fare musica nelle favelas?
Una decina d’anni fa, come ambasciatrice culturale, insieme ad altri artisti e musicisti ho avuto la possibilità di visitare Paesi dell’Est, in aree molto disagiate, Moldavia, Bielorussia, Macedonia, fino a parte dell’Afghanistan e del Kazakistan, e già questo mi ha aperto la mente. Mi ha dimostrato che, anche senza andare a migliaia di chilometri di distanza, c’erano luoghi in cui la musica poteva avere un impatto incredibile, come se fosse udita per la prima volta. Poi nel 2009, anche grazie alla mia insegnante, sono entrata per la prima volta nella favela Rocinha di Rio, un microcosmo di miseria e violenza tra quartieri molto ricchi: là è stato creato un piccolo nucleo musicale con qualche strumento. Questi sono i casi in cui la musica non solo arriva al cuore, ma veramente salva molte persone.
L’intervista completa nel numero di gennaio del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.