La musica della pace in Palestina
Donne col velo, donne in pantaloncini, donne ebree, musulmane, cristiane. C’è chi sorride, chi segue il ritmo battendo le mani o i piedi. Qualcuna discretamente. Qualcun’altra rapita dalla forza trascinante e dirompente della musica. Sguardi che si incrociano, occhi che parlano, cuori che sussultano. Mentre le parole corrono imperterrite sul movimento delle labbra. Siamo a uno dei concerti del gruppo «Three Women, Three Mother Tongues».
Le loro esibizioni sono un momento di gioia, di condivisione, di riflessione. Non è il solito show. E non vi partecipano solo donne. Questa è la Terra Santa della gente. Non quella della politica ipocrita e opportunista, né quella della guerra e della violenza. E il tempo, non quello della musica, si ferma. Come per incanto.
A suonare e a cantare sono tre donne coraggiose e, a loro modo, visionarie: l’americana Diane Kaplan, l’araba Meera Eilabouni, e l’israeliana d’origine yemenita Dana Keren. Quando si esibiscono con canzoni di pace e preghiere in tre lingue – ebraico, arabo e inglese – l’abito, il colore della pelle, la religione, l’ideologia sembrano dissolversi. La musica apre i cuori, le parole stimolano il pensiero. E per un attimo Israele e Palestina, così come ebrei, musulmani e cristiani, sperimentano l’ambìto dono della pace.
L’approccio al canto nella lingua degli altri è come una rivoluzione copernicana: «Se ti esprimi con la lingua di qualcun altro, poi è difficile dire che quello è il tuo nemico», osserva Diane, cantante e cantautrice. La «band» si è formata nel 2015. Per molti anni lei aveva già guidato gruppi di canto che comprendevano ebrei e arabi (sia musulmani che cristiani).
Si ritrovavano in una piccola chiesa abbandonata nel villaggio arabo di Eilaboun, non lontano da dove vive Diane, nel nord di Israele. Un luogo simbolico dove il tempo si è fermato al 1948 quando, durante la guerra arabo-israeliana, il cortile della chiesa fu teatro di un sanguinoso massacro. La popolazione venne allontanata anche se, più tardi, vi fece ritorno. Ma la memoria di quei fatti è ancora viva, nelle pietre, nei lutti, nei ricordi della gente.
È proprio durante il lavoro di uno di questi gruppi che Diane incontra una giovane araba, Meera Eilabouni. «Aveva 16 anni e portava la sua chitarra», rammenta Diane. Negli anni, Meera ha avuto un ruolo sempre più attivo nel creare musica. E Diane ha ritrovato in lei il suo stesso desiderio di utilizzare la musica come strumento di promozione della pace e della comprensione reciproca.
«È così che abbiamo cominciato a fare musica, incorporando parole dall’ebraico, dall’arabo e dall’inglese». Sembrava un’idea bizzarra. E, invece, in breve tempo, cominciano a fioccare gli inviti a esibirsi in occasione di concerti per la pace e di eventi per la promozione della donna e dell’uguaglianza sociale. Il gruppo, arricchitosi del contributo di Dana Keren, diventa così un punto di riferimento per cittadini e movimenti impegnati sul fronte della tolleranza e della pacificazione in Israele. «Ormai eravamo le “Three Women, Three Mother Tongues: Hebrew, Arabic and English”».
La lezione tedesca
Che la musica sia scritta da sempre nel Dna di Diane è un fatto più che biografico. Note e parole hanno sempre accompagnato la sua crescita personale e professionale. Nonostante tutto. Il nazismo ha infatti segnato in modo indelebile la storia della sua famiglia. E, nel 1979, quando decise di trasferirsi dagli Stati Uniti in Israele, la sua ambizione era quella di contribuire alla rinascita della terra d’origine degli ebrei, così che nessun altro di loro dovesse sperimentare ancora gli orrori dell’Olocausto «anche se oggi capisco che i conflitti in Israele sono molto più complessi di come me li figuravo io allora».
A segnare un punto di svolta nella sua esistenza è stata la Germania, dove fu invitata a tenere dei workshop di canto. Non senza qualche timore. Era pur sempre la figlia di sopravvissuti all’Olocausto. «Andai lo stesso. Pensavo ai tedeschi – che potevano essere figli o nipoti di ex soldati nazisti – che avrebbero cantato in ebraico o in yiddish. Chiesi loro di insegnarmi a cantare in tedesco. E cantando venne fuori anche il dolore. Allora capii che quella che stavamo condividendo era una grande opportunità di “guarigione”, personale e collettiva. Cominciai a parlare a tutti di quel processo che stava avvenendo tra noi. Il suono della lingua tedesca che un tempo mi avrebbe terrorizzato, divenne invece il suono delle voci dei miei cari amici».
Quando è ritornata in Israele, Diane ha pensato di applicare lo stesso metodo, attraverso la musica, agli ebrei e agli arabi che vivono qui. E l’attività musicale nella vecchia chiesa di Eilaboun è stato l’inizio di questo contributo alla pace e al dialogo tra popoli e culture diverse.
«Per parecchio tempo abbiamo avuto due o tre gruppi all’anno impegnati in attività musicali. Durante il conflitto nella Striscia di Gaza, nel 2014, sono venute più di 150 persone, arabi ed ebrei. Abbiamo fatto sentire le nostre voci per la pace. La gente ci diceva che era come vivere in un’isoletta sicura nel mezzo della follia della guerra. Credo che la più grande difficoltà riguardi le relazioni tra arabi ed ebrei in Israele e Palestina. I rispettivi leader premono per una soluzione del tipo: “O tutto o niente”, cioè con una totale delegittimazione della parte opposta. Temo che senza tentare di ascoltare e di capire i sentimenti e il dolore, l’uno dell’altro, continueremo a vivere in questa situazione di stallo. Credo che ci siano troppi soggetti: aziende, organizzazioni politiche ed economiche, dentro e fuori Israele e Palestina, che hanno tutto l’interesse a mantenere il conflitto in atto. Altrimenti sarebbe già stato risolto molto tempo fa. Tanta gente ha già pagato un prezzo altissimo. Più di tutti, i genitori che hanno perso i loro figli, e i bambini che hanno perso i loro genitori. Una tragedia immane». Diane ritiene che ci sia ancora molto da fare nelle scuole, sia pubbliche che private, affinché venga insegnata la tolleranza e il rispetto.
Le lingue del dialogo
Quando si esibiscono le «Three Women, Three Mother Tongues», si genera un’energia speciale nell’ambiente circostante. Le persone ondeggiano, mano nella mano, quasi fossero più leggere dell’aria. Alla fine, molti confessano che, per la prima volta, sono stati felici di aver ascoltato canti in arabo.
La musica, di solito, è in stile occidentale, più familiare alle orecchie del pubblico ebraico, anche se Meera canta in arabo. «Quello che suoniamo non è specificamente collegato a una religione – precisa Diane –. Le nostre canzoni sono preghiere universali per la pace. Meera ha scritto un brano intitolato Love is the Religion. Le “Three Women” non sono mai state criticate per i loro concerti. Anche se sono sicura che molti, sia tra gli arabi che tra gli israeliani, non ci approvano. Così come disapproverebbero la cooperazione e l’integrazione tra le due parti».
Tra le canzoni di pace e di preghiera che le «Three Women» eseguono, alcune sono più popolari come la celebre Imagine di John Lennon, cantata in tre lingue, e quella dei Beatles: We can work it out. Ma la maggior parte dei brani sono scritti e arrangiati dalle tre artiste in uno stile folk accompagnato da chitarra, flauto e percussioni. Suonano anche in occasione di eventi per la promozione del ruolo delle donne arabe nella società israeliana.
«Ci sono molte donne che non ascoltano musica occidentale come quella che facciamo noi. Eppure sono sempre piacevolmente sorpresa quando accolgono con calore Meera che suona musica occidentale, ma con parole arabe – dice Diane –. In molti casi si tratta di musica che non hanno mai ascoltato prima. Ma sono felici di ascoltare un messaggio di pace da una giovane araba. E dopo aver sentito Meera, sono più attente alle canzoni in ebraico e in inglese».
Diane, Meera e Dana hanno deciso di registrare un cd musicale, e di divulgarlo con il supporto di una campagna di crowdfunding per diffondere in tutto il mondo il loro messaggio di pace. La loro speranza è quella di potersi esibire anche in Europa e in Italia, trovando degli sponsor sensibili. L’album sarà disponibile online perché il «verbo» della fratellanza viaggia anche su internet.