Diario dal terremoto - 2. Nel container
Il terremoto è una notte in un container. In un parallelepipedo di plastica. Che scricchiola, che stringe i tuoi spazi. Che non ti vuole dentro, ti caccia fuori, anche se non soffri di claustrofobia. Per molta gente tra Amatrice e Norcia, tra l’Abruzzo e le Marche sono già cento, duecento notti in un container. Non c’è intimità in un agglomerato di scatoloni, ma, allo stesso tempo, non nasce una nuova comunità. Si vive come in un ospedale. Un’attesa logorante, incerta, amara. C’è stanchezza in molte delle terre del terremoto. La gente ha addosso troppe scosse, troppe perdite, troppo freddo. Crescono invidie, rancori, crepe tra sfollati. Per capire cosa è oggi il terremoto infinito dell’Italia centrale bisogna passare dei giorni su queste montagne. Intuire cosa è vivere in un container, senza sapere niente di cosa accadrà tra un mese, tra due, tra un anno.
La mia prima notte, giornalista intruso, in container della Caritas di Rieti è stata «spaesante». Ti chiedi: è meglio dormire sotto o sopra nel letto a castello? Se arriva una scossa, dove è meglio stare? Quante coperte? Dormo vestito? L’acqua è bollente oppure gelida, rinunci a lavarti, troppo complicato. Stai attento ai rumori, ai movimenti, al vento. I vecchi costretti su una sedia a rotelle non possono muoversi in un container. Ci si arrangia. Rita ed Erminia, mie vicine di container, hanno comprato un bungalow da un campeggio estivo. Ho sentito di costi fra i 6 mila e gli 11 mila euro. A un allevatore hanno chiesto oltre 4 mila euro per mettere un tetto spiovente sopra il parallelepipedo. Pareti pensate per la spiaggia hanno affrontato uno degli inverni più freddi a memoria d’uomo. Attacchi provvisori per la luce: 450 euro. E, a quanto mi dicono, le bollette arriveranno solo fra mesi e mesi. «Potrete rateizzarle, mi hanno spiegato», allarga le braccia Roberto, boscaiolo ad Amatrice. Dettagli silenziosi e cattivi (non ho trovato altra parola) della vita nelle montagne del terremoto. Sì, indifferenza e burocrazia maltrattano senza la velocità di un sisma, ma fanno a fette l’anima.
Ho amato Rita, Erminia, Alberta, le mie vicine nel microvillaggio di container di Santa Giusta, frazione di Amatrice (qui, terreno della chiesa, c’è anche il convento di plastica dei frati). Queste tre donne, ogni sera, mi offrivano un caffè e un cioccolatino. E una chiacchierata. Ne avevo bisogno. Il terremoto, sette mesi dopo, 50 mila scosse dopo, è il senso dell’abbandono, è una quotidianità anormale. Ci si fa l’abitudine. Non ci si abitua mai.