Diario di un amore perduto
«Oggi, come ogni giorno, una madre muore e c’è un po’ meno amore sulla Terra. Oggi, come ogni giorno, un bambino nasce e c’è molto più amore sulla Terra». È questa, forse, la frase più iconica del libro Diario di un amore perduto, di Eric-Emmanuel Schmitt, drammaturgo, scrittore, saggista, traduttore, regista e sceneggiatore francese naturalizzato belga, tra gli autori teatrali più amati e rappresentati in Europa. Un libro tutto giocato sulla cifra di quell’amore unico e insostituibile che lega una madre al proprio figlio. Diario di un amore perduto è infatti il diario di un lutto, di una perdita dolorosissima che condiziona pesantemente due anni di vita dell’autore, la perdita dell’adorata madre Jeannine. Una morte improvvisa la sua, che, al di là del dolore che provoca nel figlio, porta con sé anche la difficoltà di essere compresa e vissuta fino in fondo.
Difficile, infatti, per l’autore realizzare che quella donna bellissima, forte e volitiva («campionessa francese di corsa, che per vari anni ha detenuto il record nazionale di velocità»: così la descrive), non c’è più. Lei, che faceva crescere le giornate del figlio «alle dimensioni di una poesia: vivevo due volte, una per goderne e una per raccontarlo a lei», rammenta Eric-Emmanuel, ora non c’è più e lui si sente perso, «figlio di nessuno».
Neppure la fede viene in aiuto: «Ho la fede – scrive infatti l’autore –, (eppure) niente nelle mie convinzioni mi ragguaglia sull’aldilà, semplicemente coltivo la fiducia. Fiducia nel mistero che ci fa esistere. Fiducia nella vita. Fiducia nella morte». Perché «la fede non è un sapere, ma un modo di abitare l’ignoranza». La lotta impregna ogni pagina di questo memoir. Una lotta per lasciar andare il dolore (che si sofferma su ciò che non c’è più, che manca) ma anche per ritrovare la gioia (che sottolinea invece ciò che ancora c’è o che c’è stato e di cui essere grati alla vita).
Riga dopo riga, lo sguardo dell’autore cambia: da dolente e ripiegato su se stesso ridiventa piano piano stupito e grato. Capace di guardare a quei punti di forza che gli hanno permesso di vivere un’esistenza pienamente realizzata: «Mamma mi guardava come un essere unico, incomparabile, talentuoso. Questa è la chiave del mio destino: ho creduto nello sguardo di mia madre». Perché «i morti sono dei vivi che hanno fatto noi, e saranno i morti che noi ne faremo». Morti ma non mortali, conclude Schmitt, perché continuano a vivere dentro di noi, nella parte migliore di noi.