«Li ho lasciati soli»
«Gentilissimo direttore, le scrivo per raccontarle la mia triste esperienza in seguito alla morte dei miei anziani genitori per covid. Tutto è iniziato il 15 di marzo, quando abbiamo avuto la notizia che i miei genitori erano risultati positivi al covid. Mio padre aveva fatto la prima dose di vaccino, mia madre, causa patologie pregresse, non poteva vaccinarsi. I miei genitori vivevano ancora da soli in quanto mio padre, ancora abbastanza in salute, si occupava di mia madre giorno e notte. Di giorno li assisteva per qualche ora una signora che purtroppo, non convivendo con loro, ha dovuto mettersi in quarantena a casa. Quando stavano bene, tutta la famiglia si alternava e ogni giorno gli facevamo visita e non erano mai soli. Purtroppo quando si sono ammalati li abbiamo invece dovuti lasciare soli. La prima settimana sembrava ce la potessero fare... poi in due giorni il crollo, mio padre stava male e non riusciva più a badare a se stesso e tanto meno alla mamma. Sono stati ricoverati e non li ho più visti, tranne un ultimo saluto a mia mamma il giorno prima che morisse. Ora mi sto angustiando per quello che non ho fatto per rendere meno tragici i loro ultimi giorni: avrei potuto assisterli, ma la paura di ammalarmi mi ha fatto desistere, eppure anche se mi fossi ammalata probabilmente ne sarei uscita... non so... è triste non poter accompagnare i propri cari negli ultimi giorni... far loro una carezza e chiudere loro gli occhi... e anche per questo faccio una gran fatica a lasciarli andare».
Carla M. - Bologna
Questa lettera dà voce a tantissime altre persone, purtroppo, per quella che è una delle ferite più acute e inguaribili di questo tempo di pandemia: non poter essere stati vicini ai nostri cari che stavano morendo, non aver potuto salutarli almeno per l’ultima volta, averli lasciati soli, senza una carezza o un ultimo bacio. E non ci mettiamo molto a immaginarci quale può essere stata la sofferenza e il senso di abbandono di chi stava morendo in questo modo, se era anche solo minimamente cosciente. Penso che non ci siano parole di consolazione per questo.
L’unica cosa che mi viene in mente è il grido di Gesù in croce, rivolto a un cielo, il Padre, che sembrava vuoto, dopo che anche la terra, i suoi amici e discepoli, lo aveva abbandonato del tutto. Infermieri, medici e cappellani ospedalieri hanno fatto il possibile anche da questo punto di vista, lì dove hanno potuto. Ma il nostro senso di impotenza, se non proprio di colpa, resta tutto e cocentemente doloroso. Vorrei aggiungere che la preghiera dovrebbe averci aiutati a sentirci accanto a coloro a cui vogliamo bene, abbattendo distanze e quarantene: ci credo, ma capisco che potrebbe risuonare alquanto retorico. Come lo potrebbe essere aggrapparsi alla speranza di potersi rivedere, un domani, in paradiso.
Alla fine non possiamo cambiare il corso degli eventi successi ma, questo sì, capire un po’ meglio come continuare a vivere da qui in poi. Forse il dolore non è un incidente di percorso. Forse, dopo aver fatto di tutto per allontanare la morte dal nostro mondo, ci siamo resi conto che rappresenta un momento della nostra vita, importantissimo, delicato. E per ciò stesso da vivere possibilmente nel migliore dei modi. A partire dalla vicinanza delle persone. Forse, siamo ora consapevoli che ogni momento della vita va vissuto in pienezza, che il bene che vogliamo alle persone dobbiamo dimostrarlo sempre, da subito. Non solo perché non siamo padroni della fine, che può arrivare all’improvviso, ma perché ogni momento è una buona occasione da non sprecare.
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