Disorientati? Ritrovarsi si può
Dobbiamo ammettere che mai come oggi si riscontra, un po’ a tutti i livelli, un evidente deficit di comunicazione, dunque di dialogo. Assistiamo quotidianamente, sul palcoscenico della storia contemporanea, a un grave imbarbarimento del vivere civile. I fenomeni in cui questa deriva delle coscienze si manifesta sono allarmanti. A livello internazionale, molti di coloro che siedono, per così dire, nelle alte sfere, ostentano, con fare altezzoso, atteggiamenti inquietanti che ripropongono, ad esempio, lo scenario della guerra fredda tra i blocchi. La nuova corsa agli armamenti tra le grandi potenze la dice lunga. E cosa dire dell’intolleranza o del rifiuto preconcetto degli immigrati, dell’omofobia o della continua aggressione verbale sui social internettiani?
Ancora una volta, la nostra società si trova disorientata di fronte ai dilaganti mutamenti culturali della globalizzazione. Essa, infatti, insieme a tutto il proprio potenziale di risorse e opportunità, sta confinando la persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, in una gabbia essenzialmente economica o finanziaria, in cui omologazione acritica e squilibrata distribuzione della ricchezza generano un senso di disorientamento e incertezza, con un impatto negativo sulla sfera dei valori. Un degrado da addebitare alla crisi sistemica delle agenzie educative, a partire dalla famiglia che dovrebbe essere la prima scuola di educazione, anche civica. Dal canto suo, la scuola ha pure le sue responsabilità, spesso in affanno nel gestire il delicato rapporto tra istruzione e trasformazione sociale, alla luce, soprattutto, delle problematiche trame del nostro tempo, segnate dai continui, progressivi e crescenti passaggi generazionali. Col risultato che il pregiudizio spinge alla presunzione e all’inettitudine, pregiudicando così ogni forma di dialogo.
Aveva ragione, dunque, Luciano di Samosata a scrivere, quasi due millenni or sono: «L’ignoranza è un male veramente terribile e fonte di molte disgrazie, perché versa una sorta di nebbia sulle nostre azioni, oscura la verità, getta un’ombra sulla vita di ciascuno. E davvero assomigliamo a chi brancola nel buio, anzi, siamo nella condizione dei ciechi: sbattiamo senza riflettere contro un ostacolo, un altro lo scavalchiamo senza che ce ne sia bisogno, e non vediamo quello vicino, proprio ai nostri piedi, mentre temiamo come se ci minacciasse quello lontanissimo; insomma, non smettiamo di inciampare nella maggior parte delle nostre azioni». È evidente, comunque, che i saperi funzionali alla società contemporanea dovrebbero coniugare l’aspetto relativo al «contenuto» da apprendere, con quello relativo alle «procedure» con cui apprendere. Una sfida, a volte disattesa anche dalle nostre stesse comunità cristiane, incapaci di cogliere il binomio «fede-cittadinanza» o, meglio, «dottrina sociale-educazione al bene comune».
Il Vangelo, nella millenaria Tradizione della Chiesa e nel Magistero, ci offre numerose sollecitazioni al riguardo. Basti pensare all’Eucaristia, alla fractio panis, al pane spezzato e condiviso che è Grazia di Dio, ma anche segno di condivisione con i fratelli. Don Bosco usava la formula «buon cristiano e onesto cittadino». L’espressione appare portatrice di significati diversi, ma sempre riconducibili al rigoroso rapporto di causalità tra i due termini, con l’assoluta priorità della realtà religiosa.
Occorre, perciò, rimboccarsi le maniche con umiltà e pazienza, coltivando, sempre e comunque, la speranza. Questa virtù è imprescindibile perché ogni crisi non è mai definitiva. Con il termine krisis, gli antichi greci indicavano una scelta da operare, una decisione da prendere, un passaggio deciso verso una condizione migliore.
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