Finalmente santo il Papa del dialogo
Viene proclamato santo il 14 ottobre, in piazza San Pietro, nel corso del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani, insieme con l’arcivescovo martire di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. Paolo VI, il Papa bresciano che portò a termine il concilio Vaticano II raccogliendo la pesante eredità di Giovanni XXIII, e Romero sono in compagnia di altri quattro nuovi santi: i sacerdoti diocesani Francesco Spinelli e Vincenzo Romano; e le religiose Maria Caterina Kasper e Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù.
Gli inizi della storia
1910. Giovanni Battista Montini sta salendo in bicicletta l’erta stradina che conduce al santuario della Madonna della Stella, a sette chilometri da Brescia, quando un acuto dolore al petto lo costringe a fermarsi e poi a recarsi dal medico. Il malore, diagnostica il cardiologo, è stato causato da uno scompenso congenito che potrebbe anche provocare un cedimento improvviso del muscolo cardiaco, con esito letale. Per prevenirlo, consiglia vita tranquilla e prolungati periodi di riposo. Giovanni Battista ha solo 13 anni (era nato il 26 settembre 1897 nella campagna bresciana). E il malanno, rispondendo forse a un misterioso disegno, condizionerà il suo intero destino. Inseguendo la meta verso cui si sente chiamato, farsi prete, è infatti la salute a dettarne le condizioni.
I ritmi del seminario sono ritenuti controindicati per il debole cuore di Montini. Il vescovo di Brescia gli dà allora la possibilità di frequentare il seminario da esterno: seguirà i corsi scolastici continuando a vivere a casa. La soluzione contingente si traduce in straordinarie opportunità di formazione culturale e umana, negate ai compagni ai quali il seminario concede spazi molto limitati. In casa sua, infatti, i giornali (vietati in seminario) sono pane quotidiano; la biblioteca è fornita di ogni genere di libri: letteratura, filosofia, politica, che egli legge certo di trovare ovunque tracce di umanità e di verità. La fragilità della salute detta anche i passi successivi.
Ordinato sacerdote il 29 maggio 1920, il suo vescovo, non sapendo in quale attività impegnarlo, gli suggerisce di andare a Roma a proseguire gli studi. A Roma Montini si iscrive all’Università statale, ma poi avvenimenti vari lo portano a frequentare la Pontificia accademia dei nobili ecclesiastici, culla della diplomazia vaticana, nella quale Montini farà carriera fino a entrare nella segreteria di Stato nell’importante ruolo di Sostituto. In mezzo (1925-1933), c’è la fondamentale e intensa esperienza di assistente ecclesiastico nazionale della Fuci, la combattiva Federazione degli universitari cattolici, nata per far rivivere nell’ambiente universitario i valori del Vangelo anche come antidoto all’imperversante e oppressiva ideologia fascista salita al potere.
Nel 1937 papa Ratti lo nomina Sostituto della segreteria di Stato, alle dipendenze del cardinale Segretario di Stato, Eugenio Pacelli, futuro Pio XII. Montini svolge il suo compito in un periodo storico drammatico, quello della guerra. Pio XII risponde al conflitto lanciando le «armi della carità», e ne affida la direzione al Sostituto che, per l’efficienza e la quantità di iniziative intraprese, sarà definito dalla stampa il «ministro della carità» del Vaticano.
A guerra finita, monsignor Montini viene nominato arcivescovo di Milano. L’esperienza pastorale milanese è importantissima per lui. Milano negli anni Cinquanta è il motore dell’Italia. In pochi anni nascono più di 5 mila imprese. Il lavoro produce benessere e consumi, perseguiti con ostinazione a scapito di altri valori. Obiettivo pastorale del nuovo arcivescovo diventa allora dare un’anima alla città e dignità di persone a chi la abita. Ai lavoratori in particolare, che sono i primi che incontra e con cui dialoga.
Quando, alla morte di Pio XII, viene eletto a succedergli Giovanni XXIII, Montini ne è particolarmente felice. Al patriarca di Venezia, Roncalli, lo legano stima e amicizia. Roncalli sa bene quanto valga quello che lui ama scherzosamente chiamare «l’Amleto di Milano», per la propensione di questi al voler vederci chiaro nelle cose e ad approfondirne ogni aspetto, che lo fa apparire sempre incerto e dubbioso. Perplesso e dubbioso, Montini si dimostra anche quando papa Giovanni, sorprendendo tutti, il 25 gennaio 1959 annuncia l’indizione di un concilio per svecchiare la Chiesa, impreparata a capire i problemi di una società in rapida trasformazione e quindi a fornire risposte adeguate.
Pur d’accordo sulla necessità di una profonda riforma della Chiesa, Montini mette in risalto i rischi di un concilio. Ad assise avviata, scrive al segretario di Stato, cardinale Amleto Cicognani, lamentando la mancanza di «un disegno organico ideale e logico del concilio», e ciò «è pericoloso per l’esito del concilio; questo ne diminuisce il significato; questo gli fa perdere dinnanzi al mondo quella forza ideale e quella comprensibilità da cui molto può dipendere della sua efficacia». Con queste premesse, è inevitabile, quando Montini è eletto a succedere a papa Giovanni, che molti si chiedano se egli vorrà continuare il concilio, la cui prima sessione (1962) è servita solo a rendersi conto della complessità dei problemi.
Paolo VI però rassicura tutti: il concilio proseguirà. Ci vogliono altre tre sessioni (1963, ’64 e ’65) per portarlo a termine. Inizia organizzandolo con nuovi criteri, rispondenti a quell’organicità di cui egli stesso lamentava la mancanza, e con la novità della crescente partecipazione di «uditori» laici, donne e uomini, e di «osservatori» di altre confessioni cristiane e religioni. Alla fine, dall’immensa mole di lavoro esce una serie di documenti importanti che delineano una Chiesa profondamente rinnovata, radicata nella fede delle origini ma in dialogo con il mondo. Una Chiesa più vicina alla gente, più povera.
Intelligenza e coraggio
L’esperienza conciliare segna a fondo il pontificato di Paolo VI. Chiamato a gestire l’utopia di papa Giovanni, lo fa con intelligenza e coraggio. Interviene su laceranti problemi con magistrali encicliche. Due per tutte: la Populorum progressio, pubblicata nel 1967, e l’Humanae vitae, l’anno successivo. Nella prima, al grido di angoscia dei popoli oppressi, risponde proponendo un umanesimo nuovo, fondato sull’amore, sull’uguaglianza di tutti davanti a Dio, fino a sostenere che «la terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi», che la proprietà privata non è un diritto assoluto: essa può essere piegata alle esigenze del bene comune e dello sviluppo collettivo. Inevitabile l’accusa rivoltagli di essere un «papa comunista».
Nell’Humanae vitae, confermando la tradizionale dottrina della Chiesa, ribadisce la non liceità dell’uso di mezzi meccanici nel controllo delle nascite. Chi si aspettava altro lo accusa di tradire il concilio. Paolo VI è stato il primo papa del Novecento a varcare i confini italiani; a ritornare dopo 2 mila anni nella terra di Gesù; a farsi testimone del Vangelo, incontrando le comunità dei fedeli fino ai confini della Cina. Il primo a parlare all’Onu, a subire un attentato in diretta televisiva; a dialogare con la modernità, abbattendo il muro di sospetto entro il quale la Chiesa si era trincerata.
Cifra pastorale del suo pontificato è il dialogo, che egli considera indispensabile strumento di unità e di pace. Dialoga con tutti; con i cristiani delle altre confessioni, anzitutto, inseguendo il sogno ecumenico di «un solo gregge e un solo pastore». È evento storico l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Athenagoras I, nel 1964, in occasione del pellegrinaggio in Terra Santa. L’abbraccio tra i due avvia un’intensa stagione di rapporti ecumenici, in particolare con la Chiesa ortodossa, che portano alla cancellazione delle reciproche scomuniche che hanno sancito nel 1054 il grande scisma d’Oriente.
La pace è una delle sue più vive preoccupazioni. Non manca occasione di sollecitarla e di promuovere azioni per raggiungerla. Per invocarla da Dio, nel 1967 istituisce la «Giornata mondiale della pace», da celebrarsi ogni anno il primo gennaio. Paolo VI muore a Castel Gandolfo il 6 agosto 1978. Il funerale, secondo i suoi desideri, si svolge in tono dimesso. La bara nuda, senza fregi e senza baldacchino, viene posta a terra sul sagrato di piazza San Pietro. Sopra di essa, un antico codice del Vangelo, sfiorato dal vento che, ora veloce ora più lento, ne sfoglia le pagine.