Non doveva morire. Aldo Moro e Paolo VI
«Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo» scrive Aldo Moro nell’ultima, drammatica e struggente lettera dalla prigionia alla moglie, prima che le Brigate rosse il 9 maggio di 40 anni fa lo giustiziassero. (Correggo, nessuna giustizia: lo assassinassero).
Se lo statista democristiano avesse potuto leggere i documenti inediti che solo ora Riccardo Ferrigato (giovane scrittore e documentarista) è in grado di metterci a disposizione, nel suo Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro (San Paolo 2018), forse mitigherebbe il suo giudizio sull’amico Montini. Dipinto come «debole, immobile, succube» degli eventi. E che senz’altro, questo la storia lo certifica, incorse nello scacco di non riuscire a ottenere che Moro venisse liberato, vivo. Ferrigato riesce nell’intento di sviluppare un racconto che riconsegna «senza sconti la drammaticità di un fallimento, la desolazione di un Papa, la lacerazione di un amico. Ma anche il desiderio, la volontà, l’insonne determinazione di chi tentò e fallì».
Il libro mette alcuni punti fermi. Paolo VI cercò una trattativa, facendo lavorare per questo don Cesare Curioni, cappellano delle carceri di San Vittore a Milano. Le tracce lasciate dal suo lavoro sono labili, ma ci sono, e Ferrigato le indica. Si tentò la via del pagamento di riscatto, fino all’ultimo.
Inediti sono gli appunti di Paolo VI, i resoconti degli incontri tra la famiglia e il cardinal Ugo Poletti e altre note. Il testo più interessante per gli storici è probabilmente la bozza della lettera di papa Montini alle Br, quella famosa pronunciata in piazza san Pietro il 21 aprile 1978 che inizia con «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse…». È una bozza stilata a mano dal pontefice, nella quale ci sono però diverse correzioni, per le quali interviene una seconda grafia (il libro di Ferrigato non si limita a raccontare le vicende e commentare i testi, ma li ripropone anche in fotocopia integrale): è quella del segretario don Pasquale Macchi, che riporta così verosimilmente gli appunti al testo di monsignor Agostino Casaroli, al tempo segretario del Consiglio per gli Affari pubblici.
Ci sono altri segni, inattribuibili: delle cancellazioni di parole. Si ricorderà forse che la lettera venne recepita dall’opinione pubblica per due espressioni, entrambe contenute in un’unica frase, quando Paolo VI disse: «Vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità». A colpire fu quel «vi prego in ginocchio», ma anche e forse più la specifica «senza condizioni». Una chiusura definitiva? Non proprio, visto che contemporaneamente, nello stesso giorno, veniva rilanciata la disponibilità di Caritas Internationalis alla mediazione. «Io non vi conosco, e non ho modo d'avere alcun contatto con voi» dice Montini nella lettera, un chiaro segnale del desiderio di stabilire un contatto.
Ora, la bozza ci rivela che all’inizio la frase «incriminata» suonava diversamente. Meno diplomatica senz’altro, ma più vicina al pensiero originario del papa. «Vi prego in ginocchio, vi supplico, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza alcuna imbarazzante condizione (…)». «È più efficace» commenta Riccardo Ferrigato, che aggiunge: «Senza quella correzione i quotidiani del 23 aprile, per lo meno alcuni, avrebbero titolato: “Il Papa vuole trattare con i terroristi per salvare Moro”. Un’interpretazione corretta, ma che la Santa Sede non può permettersi», perché sarebbe una grave intromissione negli affari dello Stato italiano, con tutti i partiti – a esclusione dei socialisti – impegnati sul fronte del «no alla trattativa».
In Non doveva morire c’è un altro documento – non inedito in assoluto ma comunque di difficile reperimento – che illumina il pensiero di Paolo VI. Il contesto è l’epilogo, il secondo funerale di Moro, quello pubblico in San Giovanni al Laterano, celebrato da monsignor Ugo Poletti alla presenza del papa, che al termine prende la parola per pronunciare una preghiera per l’amico Aldo Moro. Ferrigato la commenta e ce ne propone l’autografo, ma non mette in evidenza che anche questo documento è in realtà una bozza, differente in alcuni punti da quella poi realmente pronunciata.
In particolare, vi è l’aggiunta di un pensiero alla scorta e agli altri caduti per terrorismo. Così, allo stesso modo, è modificata, rivolgendola al plurale, l’auspicio «Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell'infinito Iddio, noi li rivedremo!». Nella bozza si legge altresì: «Noi, Aldo vivente in Cristo, beato nell’infinito Iddio lo rivedremo!». Il senso generale non cambia, ma è indizio ulteriore di un rapporto diretto, di una preghiera, di una comunione realmente intensa che, chissà, avrà potuto realizzarsi definitivamente da lì a poco, quando Giovanni Battista Montini, il 6 agosto di quell’anno, anch’egli spirò.
«Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Aldo Moro, ultima lettera alla moglie, recapitata il 5 maggio 1978.