Due passi nel bosco
Usciamo con sant’Antonio a fare due passi, nella creazione. Il nostro gps interiore non può che essere francescano, perché non può che essere così per Antonio stesso. E, ancor più, non può che esserlo la risposta che san Francesco e compagni diedero quella volta a madonna Povertà, che chiedeva ragione della loro vita, della forma della loro vita: «La condussero su di un colle e le mostrarono tutt’intorno la terra fin dove giungeva lo sguardo, dicendo: “Questo, signora, è il nostro chiostro”» (Sacrum Commercium 63: FF 2022)! Con una sola battuta è «rotta la clausura»: il mondo intero ormai, annullato il confine tra il «dentro» e il «fuori», tra «sacro» e «profano», è il paesaggio dove i francescani vivono, si muovono, pregano, operano, testimoniano. Si fanno santi. Il giardino di cui prendersi cura, da coltivare e contemplare stupiti, ormai è senza steccati. Che diventa, in quanto tale, via a Dio.
Antonio, come Francesco, come Chiara, attraversando il paesaggio, camminandoci dentro non come uno che ha qualcosa da conquistare, da arraffare, ma che vi è invitato e gli è donato, può farne questa esperienza proprio perché non se ne appropria, senza reclamare: «Mio!». Può contemplarlo con meraviglia, vedere «altro» e quindi goderne e cantarlo perché non è suo. Non è ossessionato da costi e ricavi. Non ha bisogno di domandarsi ansiosamente: a che cosa potrebbe servirmi questo prato? Quanto potrei guadagnare da quest’albero? A chi appartiene questo fosso? Che cosa potrei farmene di questo colle? Chi se ne frega se butto lì tra le erbe questa lattina? Che cosa importa se spreco un po’ d’acqua? Il suo sguardo limpido e puro, piuttosto, gli rivela le trame divine intense radicate nel paesaggio.
Liberata dal rapporto di proprietà, la creazione diventa, paradossalmente, metafora della ricomposizione, del ricongiungimento, della fraternità. Anche con chi deve ancora venire, le generazioni future, a nome e per conto delle quali noi abbiamo ricevuto in deposito tutto questo ben di Dio. All’interno di questo paesaggio così percepito e vissuto, ogni essere, nella sua unicità (Gen 1,11.12.20: «ciascuno secondo la propria specie»), può incontrarsi con tutti gli altri, essere “ospite”: perché è ospitato, perché può ospitare. Riconoscere ogni cosa, tutte le creature nel loro esistere, e contemporaneamente intravedervi la loro origine divina, appellare tutto come fratello e sorella: rispettare e accogliere il loro «essere» prima del loro «essere utili».
L’approccio di lode e meraviglia, di gratitudine e riconoscenza è perciò il primo «gesto» ecologico antoniano: «Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode», scrive papa Francesco nella Laudato si’ (n. 12). A cui non può non seguire immediatamente il sommo rispetto e la responsabile cura. In questo modo, Antonio può fare un’esperienza meditativa, ma allo stesso tempo infuocata, «materiale», a partire dalla fisionomia specifica dei luoghi, dalla concretezza e unicità di fiori, piante, animali. Tutto ormai diventa supporto adeguato a schiuderci un’esperienza già qui e ora del Regno di Dio, che come perla preziosa si nasconde in ogni cosa. Anche un noce, tra i cui accoglienti e robusti rami Antonio si costruì la sua personale casetta sull’albero, a Camposampiero, negli ultimi giorni della sua vita. O la schiera di animali e la miriade di fiori, tutti adatti a spiegare la Parola di Dio, che popolano i suoi Sermoni. O il giglio che gli viene ostinatamente messo tra le mani, in statue e dipinti. Che vorrà senz’altro alludere a chissà cos’altro di spirituale. Ma intanto è semplicemente un fiore, molto bello e profumato.
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