Europa a rischio
Si avvicinano elezioni europee che potrebbero minare gravemente la costruzione dell’unità del vecchio continente. I segnali sono sotto i nostri occhi: le formazioni politiche storiche che, fin dagli anni ’50, hanno voluto e pensato a un’Europa unita nelle leggi e nella cultura, sono ormai in crisi profonda.
I due filoni politici e culturali – quello socialdemocratico e quello popolare – che ne hanno costituito la spina dorsale mostrano difficoltà impossibili da ignorare. Dall’inizio del nuovo millennio i socialdemocratici europei hanno perso in quindici Paesi. In Germania l’Spd con il 20,5 per cento ha conseguito il peggior risultato dalla fine della seconda guerra mondiale. In Francia il Partito socialista, svuotato dal successo di Emmanuel Macron, è arrivato al 6 per cento dei voti. Risultati a una sola cifra ci sono stati anche nei Paesi Bassi e in Repubblica Ceca. In Grecia possiamo dire che il Pasok non esista più. In Spagna i socialisti, che pure sono al governo, alle ultime elezioni hanno raggiunto appena il 22 per cento dei consensi, in Austria hanno perso dieci punti. E si potrebbe continuare.
Vanno male – e questo è il punto – anche gli avversari storici dei socialdemocratici, quei partiti popolari che come questi ultimi hanno puntato sulla costruzione europea e che fino a qualche tempo fa ne costituivano la maggioranza politica. Nel loro caso la crisi è dovuta non solo alla perdita di consensi, ma a un progressivo svuotamento del loro bacino elettorale a favore dei partiti populisti e sovranisti che, in questi anni, sono nati in tutti i Paesi europei. In Austria solo la consegna della presidenza a un giovane estremista ha permesso alla Ovp di vincere le elezioni. Alle elezioni francesi i repubblicani del moderato Francois Fillon sono arrivati al terzo posto. Anche in Olanda e in Svezia il consenso dei partiti moderati è frutto dell’abbraccio con l’estremismo di destra. In Ungheria i popolari sono stati fagocitati da Orban. In Gran Bretagna la Brexit fa traballare Teresa May. Angela Merkel dopo due importanti sconfitte ha annunciato che non si ripresenterà.
Insieme i due pilastri storici dell’Europa politica riusciranno a raggiungere alle elezioni il 50 per cento? Forse sì. Dovranno, però, fare i conti con l’altro 50 per cento, o poco meno, che avrà tolto loro milioni di consensi e la cui onda appare in ascesa.
Se il «sogno» europeo si è infranto in questi anni su una politica di austerità da cui i popoli si sono sentiti attaccati e su una politica migratoria che ha messo al primo posto i respingimenti, in questo 2019 rischia di essere cancellata anche la realtà della sua unità formale. Che senso ha, infatti, costruire un Parlamento se quasi la metà dei suoi membri vuole il ritorno alle nazioni sovrane? Se vede nell’Europa solo il regno della burocrazia, dell’inerzia e del rigore punitivo? Nessuno. Per questo la fine dell’Europa politica è un rischio reale, una possibilità davvero tutt’altro che remota.