La mia patria è contro la tua?

Da Trump alla Brexit, dalla rinascita dei movimenti autonomisti e indipendentisti all’affermazione dei partiti sovranisti in tutta Europa. Alle porte delle elezioni europee è possibile affermare la propria identità nazionale senza annientare l’altro?
15 Ottobre 2018 | di

Il clima sociale è cambiato. In meno di due anni la cronaca ha dato segnali inequivocabili: la Brexit, l’elezione di Trump, il referendum in Catalogna per la secessione, i partiti sovranisti che si rafforzano in tutta Europa. Un vento analogo spira anche in Italia: dal referendum in Veneto e in Lombardia per l’autonomia a un rinnovato vigore dei movimenti autonomisti in tutto lo Stivale, al governo di Cinque Stelle e Lega, più o meno dichiaratamente euroscettico. Fatti molto differenti, per natura e portata, eppure con un minimo comune denominatore: un’affermazione del nazionalismo e un’insofferenza sempre più accentuata verso le istituzioni centralizzate.

La prima tra gli imputati è l’Europa, vista da molti non più come madre di opportunità ma matrigna al soldo dei «poteri forti», il mercato, la finanza, i padroni della globalizzazione. Reagiscono allarmati i filoeuropeisti che vedono nella possibile caduta dell’Unione non solo la fine di un sogno e di settant’anni di pace, ma anche dell’unico modo per contare qualcosa in un mondo globalizzato. Di fronte, le elezioni europee del maggio 2019, che assumono sempre più l’aspetto di una svolta epocale. Da quell’evento in poi ci sarà ancora un futuro per l’Europa?

Motivo in più perché la contrapposizione si polarizzi e – complici anche i social media – volino i piatti, le offese da stadio, gli slogan invece dei ragionamenti. Fioccano anche tweet come proiettili non solo dagli account dei comuni mortali, ma da quelli dei capi di Stato, delle istituzioni, degli intellettuali schierati. Tutti pronti ad affossare il nemico, senza più un minimo di retroterra comune che consenta ai contendenti di ritrovare il filo del dialogo. In tutto questo caos le domande si accavallano: perché ci sta succedendo questo? Si può affermare la propria patria senza abbattere la patria degli altri?

La galassia dei nazionalismi

Per cercare di uscire dal guado, il primo punto è capire che il nazionalismo e i suoi fratelli sovranismo e populismo non sono una realtà uniforme. «Non esiste il nazionalismo ma i nazionalismi – afferma Adriano Cirulli, sociologo, studioso di questi temi –. Concordo con il pensiero del politologo inglese Michael Freeden il quale afferma che il nazionalismo è una “thin ideology”, una “ideologia sottile”, cioè non è un’ideologia strutturata, solida, come il socialismo, il fascismo, il liberismo. Ha al fondo una semplice idea: c’è una nazione e questa nazione ha diritto di autogovernarsi. Punto». Tutto il resto è una costruzione intorno a questa «idea sottile», che è diversa da Paese a Paese.

Un esempio? «Ogni nazionalismo – continua il professore – decide i criteri secondo i quali un membro fa parte o meno di una nazione. Per esempio, alcuni nazionalismi si basano sulla comunanza di sangue, quindi tendono a essere chiusi e a escludere l’altro; per altri alla base c’è il territorio: chi vive e lavora in un dato territorio è membro della comunità. Quindi una visione aperta alla relazione con l’altro».

Visioni escludenti sono, per esempio, quelle dei Paesi del gruppo di Visegrad, che non a caso non sono disposti a condividere con i coinquilini europei il peso dei flussi migratori. «Nazionalismi includenti sono quelli spagnoli, il basco e il catalano, o quello scozzese», il quale, pur chiedendo l’indipendenza dal Regno Unito, vuole stare in Europa e contesta la Brexit.

Non è vero neppure che il nazionalismo sia per forza di destra. Un riferimento al popolo nazione – afferma il professore – era espresso chiaramente anche dalla Resistenza. «Il sovranismo non necessariamente scivola a destra, anche se la destra attualmente sembra intercettare più efficacemente questa aspirazione».

Al principio fu la crisi economica

Ma perché i nazionalismi si affermano proprio in questa fase storica? A detta degli studiosi ci sono due ragioni principali, una economica e l’altra sociale.

La ragione economica prende avvio dalla crisi del 2008 che «ha escluso molti dalle prospettive di benessere che solo nel 2000, al tempo dell’entrata nell’euro, sembravano a portata di tutti – afferma Mauro Magatti, sociologo ed economista –. Il malessere è reale, non è inventato dai sovranisti».

La crisi ha reso evidente che né la politica degli Stati né quella dell’Unione Europea riescono a governare gli effetti negativi della globalizzazione, mentre la gente sperimenta ogni giorno di più sulla propria pelle le conseguenze delle diseguaglianze sociali: «L’Europa ha perso la spinta ideale del tempo di Jacques Delors (presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995) – spiega Cirulli – che la proponeva come spazio di diritti e di welfare e modello sociale alternativo all’interno dell’economia globalizzata. E invece, nel tempo, l’Unione Europea è diventata sempre più funzionale al mercato, dominato dalla finanza. A un certo punto la gente ha visto che la politica non contava più, che bastava un click per spostare ingenti fortune alle isole Cayman e chiudere la fabbrica sotto casa. Lo Stato liberale, modello prevalente nei trent’anni dopo la seconda guerra mondiale, non aveva più i soldi né i mezzi per tenere a bada i vari interessi in conflitto ed è entrato a sua volta in crisi».

Non essendoci più questo collante, anche gli Stati con una storia unitaria forte, come la Francia, hanno visto l’affermarsi dei nazionalismi interni. «La vera spinta alla base dei nazionalismi e dei sovranismi – spiega Cirulli – sta nell’illusione che creare un nuovo Stato indipendente su basi democratiche permetta di contrastare gli effetti della globalizzazione e della crisi economica sul proprio territorio».

L’apocalisse delle comunità

Oltre a motivi economici, alla base dell’affermarsi dei nazionalismi ci sono anche fenomeni sociali di grande portata, che potrebbero aprire a scenari inquietanti. Il primo, il più riconosciuto dagli studiosi di diversi orientamenti, è che siamo diventati una società appiattita sull’individualismo. I problemi – dalla mancanza di una politica delle migrazioni alla paura di perdere il controllo sul proprio territorio – sono affrontati in modo completamente diverso rispetto al passato: ieri a farsene carico erano le comunità che interagivano all’interno di una società, oggi gli individui. Da soli.

«Nel passato ciascuna persona – sottolinea Cirulli – formava la propria opinione in continuo confronto con gli altri: la cerchia dei conoscenti, i colleghi di lavoro, la famiglia, i gruppi di appartenenza, gli oratori, i media tradizionali, le sezioni di partito, il sindacato. Cioè attraverso i famosi “corpi intermedi”, una catena che era anche un sistema di pesi e contrappesi. Oggi i corpi intermedi sono in dissoluzione e ogni individuo tifa per sé».

Quando manca la mediazione politica «si dà libero sfogo ai radicalismi» afferma Massimo Cacciari, incontrato al Festival della politica di Mestre (VE), il 9 settembre scorso. Se non ci sono più i corpi intermedi, allora il popolo, a cui i politici di oggi fanno appello, «non è più fatto di tanti soggetti sociali come è stato finora, ma di individui atomizzati, interconnessi, che credono di essere insieme ma sono soli».

Questi, non avendo più nessuno che li rappresenti nella società civile, «delegano tutto a un sovrano»; ma, ammonisce Cacciari provocatoriamente, «tra il popolo di individui soli e il sovrano non c’è più niente. Magari è una forma nuova di democrazia. Ma è quello che vogliamo?». L’affermazione dei social media ha rafforzato questa tendenza. La comunicazione con il potere è sentita come diretta. Non solo, ognuno si sente in diritto di esprimere la propria opinione, senza filtri ma anche senza responsabilità, eludendo, se vuole, la verifica dei fatti e il rispetto degli altri. Le opinioni si polarizzano, il dialogo inteso come confronto non trova spazio, anzi ritornano forme tribali di razzismo e xenofobia, mentre la confusione regna sovrana.

«Nei fatti, le comunità virtuali sono solo un surrogato delle comunità reali. Non possono sostituirle. Anzi, è urgente riaprire spazi di discussione e di confronto fuori dalla Rete, che ricreino forme di identità e solidarietà collettiva e scardinino l’individualità che è la cifra della nostra epoca» afferma Cirulli.

La sordità all’opinione dell’altro ha radici lontane, secondo Mauro Magatti: «C’è alla base un’idea di libertà che si è sviluppata in Occidente alla fine degli anni ’60, inizio anni ’70, secondo la quale la libertà può fare a meno della relazione, è un fatto individuale. E invece nessuno è libero per conto suo. Io ho la libertà di parlare solo se qualcuno ha la pazienza di ascoltarmi. Si è liberi solo in rapporto agli altri, che per fortuna un po’ ci limitano e un po’ ci sostengono. È un apprendimento spirituale continuo a cui bisogna ritornare. Altrimenti ci convinciamo che essere liberi significhi solo avere più possibilità, più scelte e più diritti, senza pagarne il conto in termini di responsabilità e doveri. Ma questo è insostenibile da tutti i punti di vista: da quello economico a quello morale».

Una sfida epocale

Siamo dinanzi a un bivio. Nel quadro complesso in cui stiamo vivendo, ciò che sembra particolare, locale, nazionale, persino individuale, è in realtà sempre collegato a un tutto, a una visione di società, di umanità e di mondo.

In questa fase storica i nazionalismi possono essere un recupero e un riconoscimento della ricchezza di un territorio, essere la spinta per un ripensamento su base democratica della politica degli Stati e dell’Europa o possono invece diventare arroccamenti egoistici, piccole patrie chiuse, bellicose e rancorose, incapaci di una visione che vada oltre i propri confini e che ci condanna all’insignificanza nello scacchiere globale e a un conflitto dai contorni ancora oscuri.

Nessuno ha una ricetta pronta: «Ognuno di noi fa parte del processo in corso – conclude Magatti – che, come ogni processo, riflette gli orientamenti diffusi, ovvero lo sviluppo o la regressione spirituale di popoli, di gruppi, di persone. È vero che nessuno di noi da solo può essere determinante, ma ciascuno di noi è dentro le dinamiche e può contribuire a spingere in una direzione o nell’altra il futuro che verrà. Questa è la sfida che la Storia sempre ricrea e che oggi viviamo sulla nostra pelle».

 

 

Nel dossier intervengono Gianrico Carofoglio che sottolinea il legame tra linguaggio ostile e i nazionalismi del rancore (a cura di Sabina Fadel) e Francesco Montenegro, Presidente della Caritas Italiana, con una riflessione sulle difficoltà a relazionarsi con l’altro in questa fase della nostra storia (a cura di Nicoletta Masetto). Per leggerlo integralmente prova la versione digitale del Messaggero di sant’Antonio.

Data di aggiornamento: 15 Ottobre 2018
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