«Fidati di me!»
«Fidati di me!». E chi si fida più oggi? Quando qualcuno ci chiede di farlo pensiamo, come minimo, che voglia fregarci. Eppure, in circolazione, c’è ancora chi mantiene fede agli impegni presi. Senza pretendere nulla in cambio se non che ci fermiamo, per una volta, ad ascoltare.
Accade pure in questa storia. Nasce da un fermarsi, in verità da più di uno. E prende forza da un mettersi in ascolto e sentir battere il cuore, anche in questo caso non solo uno. Una storia come tante, se non fosse per qualcosa che, come spesso capita nella vita, improvvisamente fa cambiare tutto e rende la vicenda meritevole di essere raccontata.
«Perchè è venuto a trovare sant'Antonio?»
Siamo nel periodo pasquale. I pellegrini affollano la Basilica. Si fermano per una Messa, a volte solo per il tempo di una preghiera, una visita alla tomba di Antonio o una confessione. Così è anche per Giuseppe (nome di fantasia), giunto a Padova dal centro Italia: «Buongiorno padre. Vorrei confessarmi».
Nel dialogo con fra Giancarlo, che lo accoglie in penitenzieria, emerge una storia positiva: una bella famiglia, un buon lavoro, una vita che scorre normale. In chiesa ci va tutte le domeniche, impegni permettendo. Ma questa a sant’Antonio è una visita davvero speciale. Giuseppe vuole affidare a Dio, tramite un frate, i suoi pensieri, le sue preoccupazioni, i suoi errori.
L’uomo comincia a raccontare, il frate lo ascolta e, al termine, lo assolve, donandogli parole di incoraggiamento. Giuseppe lo ringrazia ma, quando fa per andarsene fra Giancarlo lo ferma.
«Scusi – gli chiede –, ma perché è venuto a trovare sant’Antonio?». Giuseppe si gira, di scatto. È come se quella domanda gli fosse venuta incontro, «come se attendesse quel momento chissà da quanto tempo», rivela poi fra Giancarlo. «Sono qui per un grazie, caro padre. Se ha tempo e pazienza ho una storia da raccontarle».
La storia di Giuseppe
«Tutto ha inizio due anni fa − esordisce Giuseppe −. All’epoca, la mia vita scorreva tranquilla, normale: un buon lavoro, una famiglia felice, una moglie e due bambini: uno all’asilo, la più grande alle elementari. Non ci mancava nulla, non chiedevamo nulla: il nostro unico pensiero era quello di crescere al meglio i figli. Fino a un certo giorno…
È tardo pomeriggio. Ero da poco rientrato dal lavoro quando mia moglie mi dice: “Beppe, devo dirti una cosa”. Subito penso ai bambini o ai nostri genitori. “Niente di tutto questo, Beppe. Sono incinta”, mi dice. La notizia, inutile nasconderselo, è bellissima e inaspettata.
Non avevamo mai pensato a un terzo figlio. Non l’avevamo escluso, ma nemmeno programmato. “Un figlio in casa è quanto di meglio la vita possa regalarci”, ci diciamo insieme. Ne siamo convinti. Tanto che, passata l’iniziale sorpresa, siamo letteralmente al settimo cielo. Lo stupore, l’attesa per questa nuova vita anche da parte dei nostri bimbi, stringe ancor di più la famiglia.
Tutto procede secondo la norma: ogni mattina porto Francesca e Giovanni a scuola; mia moglie si reca al lavoro; iniziano i primi controlli medici di routine. Un giorno accompagno mia moglie proprio a una di queste visite. L’ecografia era andata bene. Avevamo visto quel frugoletto già muoversi, il suo cuore già battere.
Il tempo di un respiro...
Tutto dura, però, appena il tempo di un respiro. Quando il medico alza gli occhi, capiamo. Non servono parole. “Qui, purtroppo, c’è qualche problema”. Il mondo ci precipita, improvvisamente, addosso.
Mia moglie e io ci ripetiamo, insieme, che qualsiasi sarebbe stato il problema, lo avremmo affrontato insieme; che se quel bimbo non fosse stato sano, lo avremmo comunque voluto con noi. Perché una soluzione si trova sempre, perché la speranza è sempre l’ultima a morire. “No, mi dispiace. Non c’è alcuna speranza, neanche minima – ci dice il medico –. Purtroppo il vostro bambino non ha alcuna possibilità di farcela. E se dovesse, per caso, rimanere in vita, sarebbe per pochi minuti. Mi spiace, ma sono un medico e ho il dovere di dirvi la verità”».
«Non ci sono parole, padre, per descrivere come ci siamo sentiti», continua Giuseppe in confessionale. «Com’è possibile che la vita un giorno ti illuda, regalandoti la gioia più bella che ci si possa aspettare e il giorno dopo, come se nulla fosse, te la tolga senza un perché?
Forse c'è un margine di errore
La prima cosa che abbiamo pensato è che forse i medici si erano sbagliati, che c’è sempre un margine di errore, che la scienza qualche volta fa cilecca. Così ci siamo rivolti a un centro medico specializzato. Nuovi esami, altri accertamenti.
Arriva il giorno tanto atteso della consegna degli esiti: “Buongiorno. Dobbiamo confermare, a malincuore, che non c’è speranza per questo feto”». Giuseppe e la moglie tornano a casa. Sono sconvolti. Abbracciano forte i loro bimbi e poi vanno a letto. L’uomo stringe a sé la moglie.
Entrambi piangono. Poi si mettono a dormire. Ma nel sonno accade qualcosa. «Non capivo se fosse sogno o realtà − incalza Giuseppe −. All’improvviso mi è apparso qualcuno che mi ha detto: “Giuseppe, non avere paura, stai tranquillo. Fidati di me!”.
È bastato un attimo per capire
Avevo già visto quel volto. Mi è bastato un attimo per capire che era sant’Antonio. La mattina mi sono alzato e ho raccontato a mia moglie l’accaduto, dicendole: “Se ci ha detto così, dobbiamo fidarci”. Lei, non senza difficoltà, ha risposto: “Ci provo, ci proviamo insieme, non abbiamo altre strade”».
«Padre, oggi, prima di venire da lei – conclude Giuseppe –, sono stato alla tomba di sant’Antonio. Ho portato la mia famiglia, in particolare l’ultimo nato, che oggi ha due anni. Quel bambino che non doveva venire al mondo, quella vita per cui non c’era speranza alcuna, ora è qui.
L’ho preso in braccio, gli ho fatto sfiorare con le manine il marmo della tomba e l’ho alzato verso l’alto, con forza. Dicendo poche parole: “Sant’Antonio, questo è tuo figlio! Grazie per avercelo dato”».
Ti ho sentito battere il cuore
Questa è la storia di un frate che, fermatosi ad ascoltare un uomo, ne ha sentito battere il cuore. Ma è anche la storia di quell’uomo, che ha deciso di fidarsi perché ha sentito che le parole di sant’Antonio gli facevano battere il cuore. Ed è, soprattutto, la storia di un bambino, il cui cuore batte, oggi, grazie al «sì» detto dai suoi genitori. Lo stesso «sì» carico di fiducia che anche noi dovremmo imparare a pronunciare più spesso.