Gli eredi dei Magi
Arriva nel buio di una sera invernale, mi saluta in inglese e parcheggia l’auto a pochi passi dal magnifico portale d’ingresso della moschea del venerdì. Ramin ha 25 anni, studia ingegneria e nel frattempo lavora in un’officina meccanica alla periferia di Yazd, Iran centrale. Qui, nel cuore della Repubblica Islamica, non sono pochi i ragazzi che come lui non sono mai entrati a pregare in una moschea. All’origine non c’è quella laicizzazione tanto temuta dalle guide religiose del Paese, quanto la riscoperta di un culto antichissimo che proprio in quest’area ha avuto origine quasi 4 mila anni fa.
«A scuola, mentre i miei compagni assistevano alla lezione di religione musulmana, a me era concesso tornare a casa o svolgere altre attività», racconta Ramin alla guida della sua auto. Appeso allo specchietto retrovisore c’è l’inconfondibile sagoma di Ahura Mazda, il dio creatore. Ramin lo prega due volte al giorno, al mattino e alla sera, anche se la regola ne prevedrebbe cinque. «Bastano pochi minuti, sono preghiere che servono per rilassare l’anima: le recitiamo davanti al sole che sorge o a una generica fonte di luce, va bene anche una semplice lampadina» spiega Ramin prima di aggiungere: «Dio non ha bisogno delle nostre preghiere, noi preghiamo per stare bene con la nostra anima». È questo uno degli insegnamenti di Zarathustra, il profeta che, nel culto di Ahura Mazda, scrisse il libro sacro dell’Avesta. Con lui ebbe inizio quello che risulta, a tutti gli effetti, il culto monoteista più antico della storia: lo zoroastrismo (detto anche magismo, da cui il nome dei «magi» della tradizione cristiana, provenienti proprio da questa zona). I suoi fedeli tengono il conto degli anni a partire dalla sua nascita: lo scorso marzo, con la festa del Novruz (il capodanno persiano), si è festeggiato ufficialmente l’ingresso nel 3756.
(...)
Lei e il fratello parlano con un misto d’imbarazzo e di orgoglio della loro religione, sanno che lo zoroastrismo in Iran è qualcosa di più di un semplice culto, è il fondamento ideologico insieme a cui preservare antiche pratiche presenti in quest’area molto prima dell’islam. Tra il settimo e l’ottavo secolo, infatti, con l’arrivo dei musulmani lo zoroastrismo fu osteggiato e i suoi fedeli costretti alla conversione. Molti di loro si rifugiarono in India, dove diedero vita alla comunità Parsi, oggi assai numerosa. Chi rimase, invece, dovette rinunciare alla propria cultura e persino alla propria lingua, il farsi, forzatamente sostituito con l’arabo. «Il nostro poeta, Ferdowsi, mise in versi le antiche storie iraniane e salvò la memoria del farsi – racconta ancora Ramin –. In un suo libro ci dice che il 29 gennaio fu il giorno in cui l’uomo scoprì il fuoco cambiando così radicalmente la sua esistenza. Per questo il 29 gennaio di ogni anno gli zoroastriani danno vita a una delle loro feste più importanti: i villaggi e le montagne si riempiono di falò».
(...)
In tutto l’Iran vivono circa 20 mila zoroastriani, sono rappresentati in parlamento ma non possono diventare ministri né tantomeno presidenti. Ricevono aiuti dallo Stato (non molti a dire il vero), con i quali finanziano le scuole e le attività dei loro istituti. Il cuore della comunità è l’Ateshkadeh, il tempio, dove si venera una fiamma continuamente alimentata: quello di Yazd è uno dei più grandi di tutto il Paese. Non lontano sorge il museo di storia e cultura zoroastriana, dove Ramin si rende disponibile come guida un paio di pomeriggi a settimana.
(...)
Proverbiali pacifisti, nei secoli gli zoroastriani hanno saputo convivere con tutte le religioni. «I ragazzi musulmani non si interessano molto a noi – precisa Ramin mentre siamo sulla strada di ritorno verso Yazd –. Più che altro scherzano e ci fanno domande sul vino e sulla birra: noi, infatti, a differenza loro, possiamo bere alcolici». Eppure non sono mancati in passato episodi di violenze o intimidazioni da parte di islamici integralisti, sui quali però Ramin preferisce sorvolare: «L’Avesta ci insegna a dimenticare la vendetta. Fin da bambini impariamo che se fai il bene ti torna il bene, se fai il male ti torna il male». Così, ancora, parla Zarathustra.
Puoi leggere l'intero reportage sul numero di settembre 2018 del "Messaggero di sant'Antonio", anche nella nostra versione digitale. Provala subito!