I topi di Jelimpo
Una delle linee di forza che attraversano tutta l’impostazione della grandiosa enciclica Laudato si’ è l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta. Il pianto della creazione e il pianto dei poveri sono un unico grido (Gen 4,10: «la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo...»).
Il deterioramento del pianeta (cambiamenti climatici, inquinamento, perdita di biodiversità) colpisce prima i più deboli, gli effetti più gravi li subiscono i poveri (Ls 48), esclusi dalle agende del mondo. E sono miliardi. E sono invisibili, salvo quando diventano un problema con la migrazione di massa che preme sui Paesi ricchi. È tragico l’aumento dei migranti per fame, che fuggono la miseria provocata dal degrado ambientale, non riconosciuti come una categoria di rifugiati dalle convenzioni internazionali, che portano il peso della loro vita abbandonata senza alcuna tutela normativa (Laudato si’, 25). È un problema tragico: ma non tanto per la cosiddetta invasione di casa nostra; il problema è davvero tragico per loro e per i loro figli senza futuro.
È stato illuminante, per capire cause ed effetti del grido comune di madre terra e dei poveri, ascoltare i racconti di fra Orlando, un giovane messicano frate Servo di Maria, che da alcuni anni è a servizio del Vangelo in Indonesia, dove segue la comunità cristiana di Jelimpo, un villaggio nella grande isola di Kalimantan, 12 milioni di abitanti. Il suo racconto parte dall’arrivo di una multinazionale che, dopo essersi accaparrata le terre con denaro, promesse e lusinghe, ha piantato migliaia e migliaia di ettari di monocultura di palma da olio.
Gli abitanti, che prima vivevano di prodotti spontanei della foresta, da cui si sentivano amati e che loro sentivano come un regalo d’amore, sono stati assunti, in parte, dalla multinazionale che riconosce loro stipendi irrisori. E mentre prima cacciavano qualche piccolo animale, raccoglievano frutta, bacche, radici, ora hanno di fronte una foresta madre in cui non è rimasto un solo albero che non sia palma da olio, e in cui non c’è più un animale o un uccello. Sono alla fame. E allora escono a notte fonda, a caccia di topi, gli unici animali rimasti.
Per vivere, loro, i liberi figli della foresta, devono fare ciò che non avevano mai fatto: mangiare topi. E piegarsi a rubare i frutti della palma nelle piantagioni per rivenderli di nascosto. Sono diventati ladri e non lo erano mai stati. Perché prima tutto era di tutti. È cambiata l’economia, è stato stravolto l’ambiente, devastati la cultura e il legame sociale; tutti rubano e nessuno si fida più di nessuno. Ma senza fiducia reciproca si è disgregata l’intera società. Dovevano diventare ricchi e sono diventati ladri.
Questa economia uccide, rovina il cuore, la cultura, la società, l’etica, il pianeta. È insostenibile. Certo, dove prima c’era solo un sentiero nella foresta, adesso campeggia il simbolo del progresso: una strada. Solo che il fondo è di terra battuta, e i camion dell’impresa, carichi all’inverosimile, che trasportano il doppio di ciò che per legge potrebbero (ottimizzare i costi, si dice) hanno ridotto quella strada a un gruviera di buche e pozzanghere profonde mezzo metro. L’hanno cioè resa impraticabile, se non per i grandi mezzi pesanti dell’azienda, con i loro pneumatici sovradimensionati.
Jelimpo è il paradigma di ciò che sta avvenendo nel mondo: piange la Terra e piangono i poveri. Ed è un unico grido. Noi consumatori abbiamo però un potere: ogni volta che apriamo il portafoglio per fare acquisti noi votiamo. Possiamo appoggiare una economia di predazione o una di solidarietà ed equità. Possiamo votare per la salvezza o per la distruzione della Terra. Dipende dalla nostra coscienza.
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