Il caftano blu
Una coppia di cinquantenni sposati e senza figli gestisce una sartoria artigianale nella medina, ossia nel centro della cittadina islamica di Salè, vicino a Rabat, la capitale del Marocco. Le viuzze odorano di mare e la preghiera del muezzin scandisce dalla moschea le ore del giorno. Dalle finestre si sentono i rumori del mercato, la musica della radio, le voci dei bambini che giocano, il pianto di cordoglio dei funerali. Il negozio di stoffe è apprezzato e frequentato dalle ricche, impazienti e grette signore del paese. Lui, Halim, è il sarto meticoloso e taciturno che ha appreso l’arte dal padre. Lei, Mina, estroversa e spontanea, si occupa delle incombenze commerciali e della vendita al dettaglio. Per far fronte più celermente alle nuove ordinazioni, viene assunto un giovane e volenteroso apprendista, Youssef, che vitalizzerà e perturberà la relazione sponsale.
Il film Il caftano blu (Marocco 2022) tocca due temi etici delicati: l’omosessualità e l’assistenza a un morente. In entrambi i casi è in gioco il vissuto corporeo grazie a cui diamo senso alla vita. Chi io sia, ossia la mia autentica identità personale (e di genere), si plasma a partire dall’attrazione che provo per l’altro, dal desiderio sorprendente di un’intimità segreta ed esclusiva. In una coinvolgente storia d’amore emerge, a un certo punto, il bisogno di una promessa pubblica: io starò con te, per sempre, in qualunque circostanza e nemmeno la malattia mortale potrà corrodere la felicità e la dignità della nostra alleanza.
L’infuocata passione dell’eros non è subìta ciecamente (Halim piange di nascosto quando si proibisce ciò che la carne vorrebbe), ma viene contenuta ed espressa in parole e gesti di fedeltà, che siglano in forma degna un rapporto che conosce responsabilità e doveri verso chi ci è prossimo e verso chi verrà dopo di noi. Analogamente la cura per il coniuge malato documenta la coraggiosa dedizione a chi, sempre più dolente, malfermo, improduttivo, s’innamora ancora della vita. Un tiro di sigaretta, un mandarino da succhiare, una passeggiata insieme, le vivaci conversazioni con clienti curiosi e vanitosi: piccole cose cariche di un significato quasi religioso, forme di devozione alla bellezza che il tempo residuo dischiude, mentre la morfina seda i dolori più acuti. Sia l’amore di coppia che l’aiuto al malato rischiano talvolta di precipitare in crisi di malinconia, paura o rabbia. O di scivolare in forme impudiche di rapporto. Ciò accade anche nel cinema: né la sensualità né la morte possono essere esibite brutalmente e impersonalmente dalla macchina da presa. Si cadrebbe nella pornografia, nell’eccitazione artificiale, nel godimento morboso. Come significare la qualità esigente di una relazione d’amore?
Il film di Maryam Touzani risponde proponendo un’icona centrale: il tessuto, il vestito, il ricamo. Lungo i 122 minuti del film assistiamo alla preparazione sartoriale di un prezioso caftano (la tradizionale tunica con cintura e maniche lunghe che si indossa in Marocco nelle cerimonie importanti). La seta blu petrolio è decorata di fili dorati cuciti a mano e viene bordata da motivi astratti e bottoni a forma di fichi. Carezzare un indumento così robusto ed elegante equivale a toccare il corpo di chi si ama, esplorare una pelle seducente, trattare con rispetto ferite e cicatrici, coprire di un velo dolori inguaribili (palliare deriva da pallium, mantello o coperta da letto). La cute è come una buccia d’agrume o uno scampolo di lino: superfici delicate che la luce attraversa e una piega può rovinare.
Divenute madri, le donne donano il caftano matrimoniale alle figlie, come simbolo di una filiazione più forte della morte. Tessere il velo, che copre le brutture e abbellisce le forme, corrisponde al compito di disegnare e ricamare la trama della propria vita. Il tempo di un’esistenza è limitato e breve. Perciò non c’è prezzo per l’abito (habitus, attitudine, carattere) degli affetti, che abbiamo coltivato e tessuto nella buona e cattiva sorte. Artiste come Maria Lai, Marion Baruch, Sylvie Clavel, Kimsooja, Maja Bajevic utilizzano fili e stoffe, espongono tele e libri cuciti, scarti di tessuto, nodi vegetali. La pazienza femminile tiene in grembo fili delicati e porta alla luce legami indissolubili. Una bellezza povera e domestica si oppone allo show ostentato di un corpo liftato. Anche nel cinema, e in particolare in quello di Touzani, il tatto ruba la scena alla vista. Una coperta scalda la fredda agonia da cancro. Il rituale della vestizione prepara il caro estinto per la processione di rito islamico. Ciò che l’omofobia censura e la legge proibisce si trasfigura e risorge nella luce. Il tabù della visione è superato dalla purezza di uno schermo candido, come quello del cinema. Non giova la fuga dietro le tele sporche di un sordido hammam (bagno pubblico). Resiste invece al male il contatto domestico col morbido filato rosa, l’abbagliante verde smeraldo, il bianco perla del raso di seta. L’atmosfera pacata di una silenziosa intesa a tre avvolge e consente scelte difficili: rinunciare a trattamenti medici inutili e costosi o accettare l’amore, che la polizia vorrebbe soffocare intrusivamente.
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