Il signor Nessuno
Chi è Mr. Nemo Nobody? È veramente un signor Nessuno (nemo in latino, nobody in inglese), dato che ha rinunciato all’immortalità e ora sta per finire da vecchio decrepito i suoi giorni nel film Mr. Nobody di Jaco Van Dormael (Belgio/Canada/Francia/Germania, 2009)? Oppure Nemo è tutti noi? Lui ricorda con nostalgia i vecchi tempi in cui gli abitanti della Terra si concedevano piaceri rischiosi e incontri avventurosi, restando al sicuro dall’invadente controllo automatizzato globale. Siamo nel 2092 e Nemo ha (solo) 118 anni. La fase terminale della sua esistenza è trasmessa in diretta da un reality show televisivo. A letto, defedato ma ironico, racconta a un ipnotista e a un giornalista alcuni vaghi frammenti della sua vita a 9 anni (la separazione dei genitori e il dilemma di scegliere se andare via con mamma o restare con papà), 15 (l’innamoramento folgorante ed eterno con Anna) e 34 (padre di famiglia e sposo di Elise, la quale ha disturbi depressivi). Lo spettatore è disorientato: chi esiste realmente? Il vecchio che rammemora o il bambino che immagina il proprio avvenire?
Primo tema del film: le terapie immortaliste promettono di prolungare indefinitamente la vita del trans-uomo, dell’uomo al di là dell’uomo «naturale». Queste ricerche sono al centro di un vigoroso dibattito etico pluralistico. Riassumiamolo. Da un lato il concetto di normale/naturale è divenuto ambiguo, dato che farmaci, protesi, trapianti, ingegneria genetica, strumentazioni informatiche sottopelle o intracraniche riscrivono i confini e le leggi del corpo, consentendo in molti casi di combattere patologie inguaribili e di prolungare la senescenza, migliorandone la qualità. In termini mitologici, l’albero della vita potrebbe tornare a offrire i suoi frutti in un Eden futuristico. Bello? Si tratta di vedere come avverrà la cosa.
D’altro lato le pressioni del mercato, il mito narcisistico dell’autosufficienza individuale e la grossolana rimozione della morte impediscono una maturazione morale autentica, espropriandoci dalla gestione dei riti di passaggio (nascita, adolescenza, malattia, anzianità) e delegando ai guru della biomedicina (che si presume siano «saggi» per definizione) il potere di prendere decisioni esistenziali e socio-politiche. Il senso del vivere rischia così di concentrarsi sul miglioramento della performance psico-fisica, dimenticando che la vita (quale bene fondamentale) va spesa per valori supremi: il servizio di Dio, la dedizione ai fratelli, la buona cura di sé. In tal modo, invece che una prossimità coraggiosa, potrebbe essere idolatrato un ideale servile di cittadino «felice, ordinato e produttivo», come profetizzava Aldous Huxley.
Vite in parallelo
Il film concentra molti (forse troppi) dilemmi epistemologici, relativi al tempo (reversibile? irreversibile?), alla memoria (reale? fittizia?), all’intelligenza (mimetica? creativa?), all’entropia del cosmo (caotica? retroattiva?), ma soprattutto ci invita a meditare su due aspetti della nostra vita mortale: la decisione e la promessa. Quando decidiamo, tagliamo via (questa è la radice latina del termine) alcune nostre possibilità e optiamo per altre, che si realizzano. Tuttavia ciò che abbiamo rifiutato non scompare, ma resta sopito nel nostro Io (nel nostro cuore, direbbe la Bibbia) e preme per essere ascoltato, come se potesse darci dei suggerimenti e garantirci chances di ripartenza o resilienza, quando la sfortuna si frappone ai nostri desideri. Ecco perché nel film si snodano biografie alternative in parallelo, secondo una progressione non lineare.
Poi c’è il tema della promessa. Due bambini (Nemo ed Elise) sono troppo piccoli per una relazione sentimentale, ma già avvertono che un amore come il loro potrebbe trasformarsi in una promessa di fedeltà reciproca «per sempre». «Per sempre» è un impegno difficile da assumere nell’odierna cultura del «provvisorio», del piacere momentaneo, del calcolo utilitaristico, della frammentazione del matrimonio in una serie di contratti parziali con diversi partner e diversi figli. Eppure la ragazza non ha dubbi: «Prometti ora che porterai le mie ceneri su Marte!». Nemo è allibito, ma dà la sua parola. Lo farà!
Il filosofico regista belga Jaco Van Dormael (classe 1957, noto per i film L’ottavo giorno e Dio esiste e vive in Belgio) usa la tecnologia cinematografica e la scenografia digitale avanzata (si pensi alle immagini d’ibernazione e di turismo su Marte) e le combina con una trama narrativa destrutturata. I cicli di vita si incrociano, poi divergono e si alternano tra loro. I personaggi vivono in epoche diverse e gli attori recitano a turno le loro differenti età. Ciascuno è irripetibile, ma nessuno è autosufficiente, poiché hanno tutti sete di un amore infinito e sperano che una storia felice incarni i loro sogni. Letto in chiave teologica, questo film parla indirettamente di Dio come il principio di senso che tutte le storie (reali o inventate) rincorrono, nonostante la precarietà dei nostri sforzi come soggetti viventi o come narratori. Il cinema ci espone ai paradossi provenienti da un Altrove, che è interessato a essere raccontato sempre da capo ogni giorno in cui la nostra fiducia nella vita si rinnova.
Un consiglio: il film andrebbe visto due volte, anche per riascoltare il chitarrista e compositore jazz Pierre Van Dormael (1952-2008), prematuramente scomparso e fratello del regista. La sua musica minimalista ricevette il premio Magritte nel 2011. Una curiosità: i bimbi, prima di nascere, sanno già il loro futuro, ma gli angeli dell’Oblio, toccandoli sulle labbra, cancellano questa preveggenza. Resta il fatto che «conoscere» sarà per Nemo, platonicamente, un «ri-conoscere».
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