Il colore della Pasqua
«Ogni frutto ha la sua stagione» si diceva un tempo, quando ci si accordava al ritmo della terra, della luna e del sole ed era una festa attendere frutti diversi al momento giusto. Poi ci si è ritrovati ad avere tutto, o quasi, in ogni momento. Trasporti veloci, specializzazione delle tecniche di coltivazione e altri fattori hanno reso possibile la presenza simultanea di prodotti diversi sulle nostre tavole, indipendentemente dalla stagione. Da un lato apprezziamo l’amplificarsi della scelta; dall’altro si è un po’ perduto il senso dell’attesa e del passo di danza che il cosmo, anche mediante i frutti della terra, sa compiere attorno a noi.
Chiedo scusa per questo inizio divagante, forse d’altri tempi. Mi sono lasciato trascinare dal ricordo di questi sapori e colori stagionali spinto da una domanda: qual è il colore della Pasqua? Quali sono i suoi sapori più tipici? Credo, infatti, rimanga ancora un ambito per il quale il vecchio proverbio «Ogni frutto ha la sua stagione» può essere richiamato a proposito. Mi riferisco al tempo liturgico. Forse non è più così scontato che ogni cristiano sappia di che cosa si tratti; e non sarà del tutto inutile evocarlo, per sommi capi. I dodici mesi dell’anno sono scanditi da «tempi» che hanno, ciascuno, una loro connotazione; un loro colore e sapore, come i frutti della terra.
Ecco l’Avvento, a dicembre, che sa di desiderio struggente e di attesa silenziosa. Poi i giorni tra dicembre e gennaio, quando il tempo di Natale ci riconsegna il gusto per la vita che nasce, per gli inizi sempre teneri e delicati di ogni creatura che viene al mondo, Dio compreso. Arriva il sapore essenziale della Quaresima, cammino di quaranta giorni che colora il nostro spirito con il sapore un po’ aspro di un auspicato ritorno all’essenziale, affinché diveniamo capaci di fare sosta, di tornare indietro dalle dispersioni tristi che, pian piano, ci hanno portato lontano da noi stessi. Fra questi, tra un periodo e l’altro, il cosiddetto tempo ordinario, che ci rimette all’opera con il sapore di una quotidianità che ha potuto ritrovare senso e speranza. E naturalmente la Pasqua.
Associo alla Pasqua, in primo luogo, il sentore di pietre aguzze, di pietroni capovolti: ostacoli che non fanno più troppa paura, perché qualcuno li ha vinti. A piedi nudi immagino le discepole e i discepoli di Gesù che corrono verso una tomba sorprendentemente vuota, calpestando il freddo di sassi taglienti. E anche la pietra tolta di mezzo da chissà chi o da chissà cosa, caduta dal sepolcro ora vuoto, sa di un peso che ancora rimane, sì, ma che non sbarra più il cammino. Da quel buio che non ghermisce più nulla è venuto fuori un profumo di vita nuova. C’era stata una donna che si era chinata su Gesù, prima che egli si lasciasse condurre a morire, una donna che aveva già riempito il suo corpo di profumo inestimabile. Ora quel profumo si diffonde, divinamente centuplicato, lungo le strade di tutto il mondo: il profumo misterioso del Risorto, del Dio che ha vinto la morte.
E poi la Pasqua ha il colore roseo del mandorlo in fiore, che ci richiama la dolce nostalgia della pace. Ecco – certo! – il più tipico, rasserenante sapore pasquale è la pace. Una pace «a caro prezzo», perché il Signore Gesù continua a donarcela facendola scaturire dalle sue piaghe di Crocifisso Risorto. La sua è una pace che affonda le radici nel dono della vita. E di questa pace, oggi più che mai, abbiamo tanto, tanto bisogno. Perché, lo sappiamo tutti, certe cose non si devono mai fare: «Ci sono cose da non fare mai / né di giorno né di notte / né per mare né per terra / per esempio, la guerra» (Gianni Rodari).
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