Non sapere il proprio posto nel mondo
Stolto. Nessuno più nel linguaggio corrente quotidiano usa questa parola. Non si dice: «Che stolto che sei!». Oppure: «Lei è proprio uno stolto!». I social incrociano insulti ben più furiosi, che ci feriscono ancora se siamo cresciuti nell’abitudine a considerare l’effetto delle parole sul mondo che ci circonda, oppure che scivolano nelle nostre conversazioni distratte e si replicano nel linguaggio della politica, dello spettacolo, del confronto che è solo scontro e ci intossicano un poco alla volta.
La Bibbia non usa solo parole tiepide e misurate. Basta pensare alle maledizioni del capitolo 28 del Deuteronomio, con il corredo di ulcere maligne, bubboni, scabbia, cecità, pazzia che porta gli uomini e le donne, stritolati da assedi senza speranza, a divorare i propri figli. Gli esegeti ci diranno che è un genere letterario, ma che spavento, che violenza di immagini. E poi c’è questa parola, stolto, che ricorre moltissimo, soprattutto nei libri sapienziali, fino al Vangelo. A noi non fa impressione, è lontana, fuori uso, vagamente letteraria o, appunto, biblica. Però nella Scrittura agli stolti capitano cose tremende.
Lo stolto è dissipatore e «dilapida tutto» (Pr 21,20), non comprende nulla del suo stare al mondo perché «ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode» (Ger 5,21), la sua vita gira a vuoto, si perde, «non sa neppure andare in città» (Qo 10,15), è destinato a tutti i fallimenti, costruisce la sua casa sulla sabbia «ed essa cadde, e la sua rovina fu grande» (Mt 7,26), fino alla catastrofe finale, perché resta escluso dal Regno dei cieli come le vergini stolte della parabola: «In verità vi dico: non vi conosco» (Mt 25,12).
Ma chi sono gli stolti? La parola ebraica è nabal e noi troviamo nella Bibbia un Nabal, nome proprio, al capitolo 25 del Primo libro di Samuele. È un uomo ricco, un allevatore che ha il suo bestiame al Monte Carmelo e sta tosandolo. È un’occasione di festa e generosità. Nel codice non scritto dei rapporti tra nomadi e stanziali possidenti è prevista una «tassa di fraternità», vuol dire che i due gruppi non si combattono, i nomadi proteggono dai predatori occasionali questi momenti importanti e in cambio hanno un riconoscimento. Davide manda i suoi servi a chiedere questo riconoscimento, «quanto puoi dare», semplicemente, e Nabal li caccia via. Davide allora mette in armi i suoi uomini, ma la sua mano è fermata dalla moglie di Nabal, la saggia Abigail. La storia finisce con Nabal che muore e Abigail che diventa sposa di Davide.
Nabal è stolto perché non riconosce di essere all’interno di una comunità più larga del suo clan, del suo potere, della sua ricchezza. Si sente un dio sciolto da ogni relazione, dimentica che il bene di cui godiamo viene da un mondo che non abbiamo creato. Non riconosce che la sua ricchezza viene dalla pace con questo mondo di relazioni. Questo è lo stolto. E il tempo della vita gli viene tolto mentre lui lo sciupa a ubriacarsi. Nabal somiglia al ricco stolto del Vangelo di Luca, che accumula accumula e quando dice alla sua anima «hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia», proprio allora gli viene richiesta la sua vita (12,19-20). Muore. Perché si muore, anche se viviamo storditi di potere e di rabbia, in faccia alle immagini che ci arrivano, alle guerre che vediamo, in diretta, minuto per minuto.
Ecco lo stolto. Quello che non sa il suo posto nella grande comunità del mondo, che non riconosce di essere parte di una vita che ha bisogno della pace personale e sociale: «Come un cane ritorna al suo vomito, così lo stolto ripete la sua stoltezza» (Pr 26,11). Aiuto. Che si fa? Che si fa? Vi lascio la pace, dice Gesù nel Vangelo. È già data, c’è solo da accoglierla, insieme.
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