Il ronzio del Sinodo
In questo periodo, mentre la primavera si avvicina, le api, ancora in meritato riposo, cominciano a muovere qualche timido movimento. Un infaticabile ronzio, infatti, quello degli insetti più operosi, inizia a farsi strada nel chiuso degli alveari, per poi esplodere, all’arrivo del primo caldo, in direzione del sole e della propria infaticabile attività «en plein air».
Ogni volta che penso al Sinodo, l’ormai nota e sempre molto attesa assemblea dei vescovi, che dal 1965 sostiene l’operato del Papa e della Chiesa, mi viene in mente questa immagine. Quest’anno, devo dire, la trovo particolarmente calzante, proprio perché il Sinodo ha scelto di darsi come obiettivo quello di proiettarsi sempre più verso l’esterno e, se vogliamo parlare di inclusione, di lavorare per rendere l’inclusione stessa una pratica presente e attiva anche al proprio interno. Uno scarto, quello che si prefigge il «nuovo» Sinodo, che non è affatto scontato, perché non si tratta solo di parlare di disabilità, ma di come approcciarsi a essa, di come, cioè, comunicare reciprocamente, in modo aperto e paritario, all’interno delle comunità. Tutto questo, a mio parere, è davvero molto nobile, ci voleva. Ma come fare, mi chiedo anche, nella pratica di tutti i giorni? In aiuto ci vengono san Giovanni, san Pietro e lo storpio che, negli Atti degli Apostoli (Atti 3,1-10), arrivano dritti al punto. La vicenda, come sapete, si svolge sulla soglia della porta Bella del Tempio, presso la quale un uomo incapace di camminare, lo storpio per l’appunto, era solito chiedere l’elemosina. L’uomo, quindi, non sedeva né dentro né fuori dal tempio ma sul confine, lì dove, pensateci, finisce sempre per posizionarsi la disabilità.
Ed è qui che Giovanni e Pietro si trovano ad agire e lo fanno, come ben ha notato qualche tempo fa monsignor Nazzareno Marconi, vescovo di Macerata, nel modo giusto, con coraggio e in controtendenza rispetto ai capi carismatici. Questi ultimi, infatti, pensavano di risolvere il tu per tu con lo storpio alla maniera «classica», quella comoda, regalandogli, cioè, oro e argento e sopperendo così alle sue necessità materiali. L’intuizione di Pietro e Giovanni va oltre: non sono i beni (di cui peraltro per scelta non dispongono) quello di cui lo storpio ha bisogno, ma la possibilità di camminare, di muoversi da solo. Pietro e Giovanni non pensano a come mettersi a posto la coscienza, ma arrivano a mettersi «nei panni di». Ed ecco che avviene il miracolo: grazie alla fede e all’intercessione di Dio, lo storpio si alza in piedi.
La vera rivoluzione però, non fraintendetemi, non scaturisce dal cambio di stato fisico dello storpio, dalla rimozione, cioè, della disabilità, ma dal potere che gli viene conferito di scegliere in autonomia se entrare o meno nel Tempio. Ancora una volta, non è dunque cancellando la disabilità che si fa inclusione, ma mettendo al centro la relazione, facendo in modo che la persona possa, con le sue gambe, le sue ruote o i suoi vari ausili, partecipare alla vita che desidera, dentro o fuori dalle porte che si troverà di volta in volta davanti. Una bella sfida per la Chiesa di oggi, che mi auguro essa persegua come sta facendo, come un alveare operoso, in pieno sole. E voi, lo sentite il ronzio del Sinodo? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook e Instagram.
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