Italiani sotto le bombe
Oggi in Ucraina il «sentiment» popolare prevalente è dettato dall’urgenza della difesa del Paese a tutti i costi, ma non mancano i ripensamenti e le autocritiche su quanto un avvicinamento o una sorta di collateralismo del Paese alla Nato, più ancora che l’entrata nell’Unione europea o l’annoso conflitto nel Donbass, possano aver sortito la sciagurata e ingiustificabile guerra scatenata da un vicino indecifrabile e sospettoso come il regime autocratico di Mosca. E con i russi che hanno voluto punire i «fratelli» ucraini che non li hanno accolti da liberatori, come invece si aspettavano. Gli analisti si chiedono quanto l’Occidente sia stato davvero zelante – o temerario secondo alcuni osservatori – nell’associare i Paesi dell’ex blocco comunista alla propria area geo-politica ed economica senza aver trovato un accordo preventivo di pacifica convivenza con Mosca, volto a creare una zona di sicurezza dall’Atlantico agli Urali ovvero quell’«unica Europa» come l’aveva auspicata, in tempi non sospetti, papa Giovanni Paolo II (europeo, polacco e slavo), e come lui anche Michail Gorbaciov, ultimo segretario dell’allora Partito comunista dell’Unione sovietica; e prima di loro il presidente della Repubblica francese Charles de Gaulle.
A dispetto degli esiti, al momento imprevedibili, della guerra in Ucraina, rimarranno solo macerie morali e materiali, popoli divisi, sete bipartisan di vendetta, e una nuova era di «guerra fredda» – o «calda», ma in questo caso che Iddio ce ne scampi – che forse nemmeno una generazione riuscirà a metabolizzare. Anche un certo numero di civili italiani (160 secondo gli ultimi dati del nostro ministero degli Esteri) sono rimasti in Ucraina. Non indossano una divisa e non imbracciano nessun’arma. Ma la loro guerra al fronte la stanno combattendo ugualmente, da testimoni della storia. Sono professionisti, imprenditori, artigiani, artisti, pensionati, ma anche padri e madri con i loro figli. Sono quegli italiani che hanno deciso di rimanere perché sentono l’Ucraina come una seconda patria oppure perché non hanno voluto abbandonare ciò che si sono costruiti in una vita di sacrifici. In queste pagine vi proponiamo tre testimonianze esclusive che ci restituiscono il clima di questa tragedia, prima di tutto umanitaria, che purtroppo fa scempio di quasi ottant’anni di pace in Europa.
Kiev
Trevigiano di Roncade, Stefano Antoniolli è lo chef italiano più famoso dell’Ucraina. Dal 1999 vive nella capitale che prima dell’inizio della guerra contava 4 milioni di abitanti. Adesso non sono neanche la metà. Chi ha potuto è fuggito. Antoniolli ha 45 anni, è uno dei pochissimi italiani rimasti a Kiev. Dopo la formazione all’Istituto professionale alberghiero «Dolomieu» di Longarone (Belluno), ha lavorato per un periodo a Dubai, prima di approdare in Ucraina. Ma l’Italia resta ogni anno la destinazione delle sue vacanze. È sposato e ha un figlio che quest’anno deve sostenere l’esame di maturità. In questo momento l’attività del ristorante per cui Antoniolli lavora, il Fenix, è ferma. Normalmente, prima della guerra, faceva 300 coperti. Da qui è passata tutta l’Ucraina che conta, compreso il presidente Volodymyr Zelenski che lo chef veneto conosce di persona. «La mia quotidianità è scandita dalla sveglia, da una passeggiata col cane, dal ritorno a casa – mi racconta Antoniolli –. Quando rientro, mio figlio sta già studiando online. Da qualche settimana ha ripreso le lezioni a distanza. Parla cinque lingue. È l’unico della sua classe rimasto a Kiev. Gli altri suoi compagni si sono spostati a ovest, a Leopoli, o in altri Paesi: Romania, Moldavia, Polonia. Ma si tengono in contatto attraverso internet». Non solo la guerra ha lasciato il segno. «Mio figlio è nato durante la rivoluzione arancione. Era a cento metri di distanza quando sparavano in piazza Majdan, nel 2014. Poi abbiamo passato due anni con l’emergenza del Covid-19. E adesso la guerra. Tutto quello che questa generazione di giovani ha vissuto, o li ha fortificati nel carattere oppure li ha sopraffatti».
Verso la tarda mattinata, Antoniolli va al ristorante. Anche se il locale non lavora, c’è sempre qualcosa da fare. Quello che lo ha sorpreso in questo periodo è stato l'odio che ha visto montare ovunque, esploso in tutte le sue peggiori declinazioni. «Mi fa paura leggere e sentire commenti e invettive che spaziano dalla voglia di vedere qualcuno morto fino al desiderio di guardare quelli che si ammazzano. Io sono cattolico. Ci sono valori che hanno segnato la nostra formazione e la nostra storia. Ci hanno sempre insegnato il perdono. Ma qui è saltato tutto. Quando non eravamo in guerra, si parlava di pace, di umanesimo; ora solo di armi e morte. Sembra che occorra distruggere l’altro per vivere». Anche tra i cittadini di Kiev si possono ascoltare opinioni ai due estremi, come quelle che si sentono in Occidente oppure, sul versante opposto, quelle che fanno eco alla propaganda russa. In mezzo ci sono tutte le sfumature. Ma «la cosa più importante l’ha detta papa Francesco – osserva Antoniolli – anche se è passata in sordina quasi ovunque. Esecrando questa guerra, il Pontefice ha ammesso di aver provato vergogna per il fatto che alcuni Stati hanno aumentato la percentuale delle loro spese militari».
Lo chef non ha mai avuto paura nonostante i ripetuti allarmi antiaerei, le esplosioni e le sparatorie. «I check-point, i blocchi di cemento armato lungo le strade, i sacchi di sabbia attorno ai monumenti sono la cifra del dramma che stiamo vivendo. Obiettivamente siamo esposti a nuovi possibili attacchi, ma mi sono sempre sentito al sicuro qui a Kiev. Abbiamo anche un rifugio nel seminterrato del palazzo in cui abitiamo». All’inizio è stata dura. «La prima settimana di guerra era tutto chiuso e non si trovava nulla. Mi è capitato di stare in coda al freddo per ore, prima di entrare nell’unica farmacia aperta in tutto il quartiere. Adesso ce ne sono molte di più. La stessa cosa è successa anche per i supermercati. Stanno riaprendo chioschi, bar, qualche mercato rionale di frutta e verdura. Le autorità locali hanno sollecitato i commercianti a riprendere l’attività anche per spingere un po’ l’economia». I familiari di Antoniolli sono tutti in Italia: «In questo periodo li ho sentiti spesso, perfino alcuni parenti che avevo perso di vista da venti o trent’anni». Che ne sarà dell’Ucraina? Lo chef non ha dubbi: «Sarà più povera e disastrata di com’è adesso, e con un’economia tutta da ricostruire. Dicono che verrà varato una specie di “Piano Marshall” per l’Ucraina. Ma sa quanti soldi a fondo perduto ha già dato l’Europa all’Ucraina prima d’ora? Eppure nei paesetti fuori città ci sono ancora le strade di sassi. Questo è un Paese dalle forti contraddizioni: vanta ristoranti di altissimo livello, centri commerciali stupendi, wi-fi ovunque come neanche in Italia. Ma per altre cose, sembra un Paese del terzo mondo, anche se ha molte potenzialità».
Odessa
I primi italiani ad approdare a Odessa furono i genovesi nel Medioevo. La città portuale e turistica sul Mar Nero è famosa anche per le numerose opere architettoniche di gusto e fattura italiani, uscite dall’ingegno di Francesco Boffo. La più nota è la scalinata Potëmkin, immortalata dal regista russo Sergej M. Ejzenstejn nel film La corazzata Potëmkin. Ma anche nella musica la città ha lasciato il segno: la celebre canzone ‘O sole mio è stata composta, su parole di Giovanni Capurro, dal musicista napoletano Eduardo Di Capua, ispirato proprio mentre si trovava a Odessa. Originario di Milano, una laurea alla Bocconi, Ugo Poletti è consulente e imprenditore, e parla russo. È a Odessa da cinque anni. «Ho vissuto due delle situazioni recenti più drammatiche: la pandemia di Covid-19 e adesso la guerra. Qui l’emergenza del Coronavirus è stata affrontata in modo diverso dall’Italia. Il governo ha chiuso subito i confini, e interrotto i collegamenti con l’esterno. Ma il Covid è entrato ugualmente, anche se nel complesso abbiamo occupato le posizioni mondiali più basse in fatto di contagi. Alla fine la pandemia ci ha spinto a organizzarci e a strutturarci meglio. Le vaccinazioni hanno raggiunto un tasso di gran lunga inferiore a quello europeo anche perché molta gente non ha voluto vaccinarsi».
Durante il periodo del Covid, è nato online «The Odessa Journal» di cui Poletti è fondatore e direttore, che si occupa di eventi sociali, attualità e cultura della città nella prospettiva di informare i turisti. Il 70 per cento dei lettori vivono fuori Ucraina. Una scommessa sulla ripresa economica. Poi è scoppiata la guerra che «ha colto tutti di sorpresa – ammette Poletti –. Era una minaccia potenziale, ma Putin aveva già portato a casa risultati diplomatici importanti: aveva messo in luce la debolezza della Nato, la non disponibilità degli Stati Uniti a difendere l’Ucraina, e secondo me c’era già stata una rassicurazione di non far entrare l’Ucraina nella Nato. Per questo ritenevo illogica un’invasione. La gente non se l’aspettava. Pensava che fosse la solita minaccia russa. Il conflitto ha cambiato l’opinione sulla Russia. Sebbene una quota notevole della popolazione ucraina abbia parenti in Russia, questa guerra ha creato un solco, e la stragrande maggioranza degli ucraini – anche i russofoni: pensiamo agli abitanti di Kharkov che parlano russo o agli abitanti di Odessa – ha avuto una reazione patriottica. Si sono sentiti aggrediti, insultati, offesi. E quindi solidali nel difendere il loro territorio. La russofilia, cioè la fratellanza, l’amicizia, il legame sentimentale con la Russia si era già ridotto in seguito alla guerra nel Donbass e all’annessione della Crimea alla Russia. Gli ultimi nostalgici di questa relazione speciale sono stati spazzati via. Il russo, fino alla Mongolia, è comunque la lingua del business. Ma gli ucraini si sentono ucraini. Fino a ieri dibattevano se fossero diversi dai russi oppure no. C’erano ancora dei dubbi. Oggi non più».
Dall’inizio dell’invasione, la vita di Poletti è stata segnata dagli allarmi antiaerei, dalle notti quasi insonni, dal lavoro che l’ha comunque impegnato a casa. Certo, ci sono ancora le navi russe al largo della città. «È in atto un blocco navale di 90 mercantili nei porti ucraini – mi ricorda Poletti –. E quando qualche nave ha provato a prendere il largo, è stata affondata o è stata catturata. I russi hanno bloccato ogni traffico, e stanno strangolando l’economia ucraina. Un cargo ha cercato di superare il blocco navale: era una nave estone battente bandiera panamense. I russi l’hanno colpita con i missili e l’hanno affondata. Ironia della sorte: tra i sei marinai a bordo che si sono salvati, due erano russi». Le esportazioni ucraine sono in maggioranza di prodotti agricoli secchi, come grano, mais, cereali, semi di girasole; e di prodotti minerari utili per la fabbricazione dei telefoni cellulari, come litio, cobalto e manganese che vengono estratti in Ucraina. «La flotta russa ogni tanto cannoneggia la riva di Odessa – dice Poletti –. Da casa mia ho visto il fumo che saliva in mezzo alle abitazioni quando hanno attaccato obiettivi militari, caserme, alcune zone del porto causando vittime. Le esplosioni sono ricorrenti. I russi tentano di colpire la città. Spesso si tratta di esplosioni causate da missili intercettati dalla contraerea ucraina».
Davvero l’ambizione di Putin è quella di impadronirsi di tutta la costa meridionale dell’Ucraina? «È un sogno, una bella immagine sulla carta geografica – riconosce Poletti –. Se mai i russi arrivassero qui a Odessa, chiuderebbero tutte le coste del Mar Nero e farebbero un salto di qualità dal punto di vista geo-politico perché il Mar Nero diventerebbe un mare russo. Infatti la Turchia non ha porti rilevanti nel Mar Nero. L’esercito russo ha difficoltà logistiche e sta perdendo energia e motivazioni. Se volevano conquistare Odessa, dovevano arrivare qui entro le prime due settimane di guerra. Evidentemente davano per scontato che avrebbero conquistato subito Kiev, e tutta l’Ucraina si sarebbe arresa senza combattere». Ora il timore è quello di un’escalation nucleare. Ma Poletti la ritiene una possibilità remota. «Per utilizzare un’arma nucleare ci vuole una catena di comando compatta. In questo momento di crisi politica all’interno del Cremlino, dove ci sono molte persone in disaccordo con questa invasione, non credo che ci sia il consenso giusto per fare una mossa così estrema. E poi se prendesse questa strada, Putin andrebbe contro la sua stessa propaganda con cui dice di voler liberare i fratelli ucraini dal “governo dei cattivi”. Come potrebbe colpire gli ucraini con armi nucleari?».
L’unica incognita resta il ruolo di Pechino nello scacchiere ucraino. «La Cina è un partner commerciale utile. I cinesi sono ottimi clienti e sono i più grossi importatori di mais e di semi di girasole. Investono nei porti dell’Ucraina, controllano la seconda Borsa di Kiev. Non dimentichiamo che l’Ucraina è un Paese in crescita, ed è lieto di accogliere gli investitori. A Odessa è molto forte anche la cultura ebraica, e gli ebrei fanno intermediazioni finanziarie internazionali. Gli ucraini hanno lo stesso spirito, molto mercantile e poco ideologico». Tuttavia la Cina appare ancora come l’alleato della Russia. «Ma sta giocando il ruolo del trapezista: si deve barcamenare tra due opposte tendenze, e non può permettersi di sbilanciarsi da una parte o dall’altra per non cadere dalla corda su cui sta pericolosamente camminando. Da una parte è alleata della Russia, e certamente Pechino non vede di buon occhio una Russia perdente e umiliata. Ma, allo stesso tempo, ha una dipendenza economica enorme dall’Occidente. E la Cina non può permettersi di non sostenere la propria crescita economica, altrimenti questo si tramuterebbe in conflitto sociale. Ecco perché Pechino ha una posizione di astensione: ha aumentato gli acquisti di gas e gli scambi di tecnologia militare con la Russia, però fa molta attenzione a non offendere gli americani e a non qualificarsi come un alleato troppo solerte di Mosca. Oltretutto i cinesi sono molto preoccupati dalla mancanza di armonia, di stabilità, dagli scossoni. E questa guerra, per loro, è un grosso cruccio, una fonte di guai. Una situazione che compromette anche il loro progetto della “Via della seta” perché questa passa anche attraverso lunghi corridoi ferroviari, alcuni di questi in Russia. E i porti come Odessa sono strategici. La “Via della seta” è la loro più importante azione di soft power anche per aggirare il dominio dei mari degli americani e dei loro alleati. Con la guerra in Ucraina, tutti questi progetti vengono messi in crisi».
Resta il fatto che ora i conti bisogna farli prima di tutto con la Russia. «Putin sicuramente è responsabile dell’aggressione all’Ucraina – ribadisce Poletti –. Ma non sottovaluterei il fatto che per Mosca è vitale tenere lontani i confini con i nemici perché non dimentica mai la sua storia: le invasioni continue da parte di polacchi, svedesi, tedeschi, francesi, italiani. La Russia è riuscita a respingerle grazie al fatto che ha sempre avuto molto spazio tra i confini con i nemici e Mosca. Perdere il controllo dell’Ucraina, lasciarla diventare una possibile rampa di lancio di missili puntati contro Mosca, era una questione vitale non tanto per Putin, ma per la Russia. Così come gli americani non volevano i missili sovietici a Cuba. Quelle di Putin non erano minacce di un leader che si è bevuto il cervello, e che per motivi d’orgoglio o di fama internazionale ha deciso di scatenare una guerra. Secondo me, è il popolo russo ad essere da sempre preoccupato, così come lo è stato in passato – fin dai tempi di Napoleone, o di Gustavo Adolfo di Svezia o del Regno di Polonia – del fatto che i suoi potenziali nemici lo possano invadere. C’erano ragioni come queste che l’Occidente non doveva sottovalutare. Io sostengo l’Ucraina, ma bisognava aspettarsi che, prima o poi, ci sarebbe stata una reazione violenta. Per la Russia è una questione di vita o di morte».
Mykolaiv
Salvatore «Totò» Barone è un poliziotto siciliano in pensione, originario di Niscemi (Caltanissetta). Dal 2005 vive a Mykolaiv, una città di oltre 400 mila abitanti tra Odessa e Kherson: un punto nevralgico e strategico del corridoio meridionale che fa gola a Putin. Mykolaiv è divenuta tristemente famosa per il missile che ha colpito il palazzo del governo sventrandolo e provocando una carneficina. Metà della popolazione della città è fuggita. Barone è sposato con un’ucraina. Hanno un figlio di 17 anni e una figlia di 6. Abitano in un’elegante villetta dotata di un bunker sotterraneo con muri molto spessi, in cui si rifugiano durante i bombardamenti. La guerra l’hanno vissuta fin dall’inizio, quando è stato colpito più volte l’aeroporto militare. «È a tre chilometri da casa mia – mi racconta Barone –. I russi hanno tentato di entrare in città con i carri armati, provenendo da Kherson. Ci sono stati furiosi combattimenti, ma i russi sono stati respinti. A 150 metri da dove abito, una stazione di carburante è stata colpita. Sono morte tre persone. I russi hanno attaccato anche una caserma e sono morti un centinaio di soldati; e poi un ospedale pediatrico». I Barone si sono organizzati per tempo. «Non ho mai pensato di scappare – ammette Salvatore –, né di lasciare la mia casa e la mia città. Abbiamo fatto scorte di cibo. Per fortuna abbiamo sempre avuto acqua ed energia elettrica. Gli allarmi antiaerei sono continui, e ci aspettiamo ogni giorno qualche missile. Qui sono cadute anche bombe a grappolo».
Da queste parti, i rapporti con i russi non sono mai stati buoni. «Prima di questa guerra, la gente assaporava la libertà, stava apprezzando il presidente Zelensky che stava cercando di avvicinarci all’Europa. Erano stati aumentati gli stipendi e le pensioni. E non vogliamo certo tornare indietro». Mykolaiv è una città a vocazione sia industriale che agricola. Qui c’è da sempre una fiorente industria aeronautica e aerospaziale. In gioventù Barone ha lavorato in Germania. Poi ha fatto il militare in Italia, e successivamente è entrato nel corpo di polizia. «Ma io sono anche pittore e cantante, e suono la chitarra. Ho fatto mostre personali anche qui in Ucraina. Casa mia è piena di quadri che ho realizzato io, tutti ispirati alla Sicilia», mi dice con un certo orgoglio. Ma poi si congeda in fretta perché l’ennesima sirena dell’allarme antiaereo ha iniziato a suonare.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!