La chiesa di San Gaetano e la zingara
Sotto il portico davanti a casa mia girava da alcuni giorni una zingara. Bella e imponente d’aspetto, coi lunghi capelli gentilmente intrecciati, un ampio gonnellone e uno scialle variopinto, proponeva ai passanti (senza molta convinzione, devo dire) la lettura della mano, e nel frattempo chiedeva qualche soldo.
Alcuni giorni fa andavo a prendere un caffè. La vidi, e le offrii di farmi compagnia. Non si poteva ancora berlo nelle botteghe, quindi ci fu servito in un triste bicchierino di plastica e uscimmo all’aperto. Nei giorni successivi la incontrai ancora, mi sorrise amichevolmente e disse: «Tu sei quella del caffè!», ma io dovevo andar dal dentista e scappai in fretta. Mi dispiacque un poco, e la cercai poi ancora, finché dal mio balcone ieri la vidi uscire dalla chiesa di San Gaetano e sgusciare veloce nel vicolo che la fiancheggia.
Allora andai anch’io nella chiesa, che per la nostra famiglia è sempre stata un po’ la «nostra» chiesa: non quella parrocchiale, che è la poco distante, magnifica e antichissima Santa Sofia; ma proprio quella che sentivamo nostra, dove si svolse il funerale di nonno Yerwant, l’armeno, e l’anno dopo il matrimonio di zio Nubar, il maschietto sfuggito al genocidio nella tragica estate del 1915. La fotografia dello zio, piccoletto e serissimo nel suo completo scuro, e della giovane moglie, la bella zia Anahid dal fresco sorriso, che veniva da una famiglia di armeni d’Etiopia, campeggiava nel nostro salotto sullo sfondo dell’elegantissima facciata di San Gaetano.
Ma perché la mia amica zingara era entrata proprio in quella chiesa? Ci va poca gente, e comunque quel giorno dentro non avrebbe trovato nessuno. L’interno è un tripudio di marmi colorati, di statue e di quadri, collocati intorno alla cupola affrescata (la Gloria del Paradiso) che sale vertiginosamente verso l’alto, con tante finte colonne come raggi incurvati che approdano al cerchio che racchiude la Trinità: a noi bambini piaceva moltissimo, per l’abbondanza di colori e di figure che sembravano muoversi e intrecciarsi tra loro in un movimento perenne.
È un interno barocco, come ce ne sono pochi nel Veneto, di un barocco lussureggiante, proprio per quell’incredibile affresco di Guy de Vernansal, il francese che ha dipinto la cupola. Ma la zingara dove andava? A mettere un lumino davanti alla bellissima Madonna di Andrea Brioschi, approdata in questa chiesa da un’altra distrutta?
Volevo capire, ed entrai in chiesa. Mi guardai intorno e tutto mi sembrava come era sempre stato; le statue possenti che sporgevano dagli angoli, i ritratti dei santi nei riquadri sulle nicchie dei muri, le due cappelle laterali. Ma, guardando più da vicino, mi accorsi di qualcosa di nuovo in quella di destra. Sulla tovaglia che copriva l’altare, nell’angolo sinistro, c’era – appena visibile – la statuetta di un santo: un sant’Antonio piccolino e dall’aria modesta, visibile solo da vicino.
Ma la mia amica zingara sapeva che era lì ed era andata a trovarlo. Se ne stava tranquillo, col capo appena inclinato e gli occhi semichiusi, immerso nella contemplazione del Bambino che teneva tra le braccia, in compagnia di un paio di candelabri e di alcuni vasetti di vetro rossi avvolti da steli di metallo dorato, da qualche rosa e da qualche rametto verde, completamente a suo agio, come fosse là apposta per camminare in uno strano praticello mistico, ascoltando i suoi fedeli. Nello splendore della grande chiesa piena di angeli e santi, il piccolo Antonio ricordava l’essenza carnale di quel Cristo Bambino che si era rifugiato tra le sue braccia, la forza incantata e gentile delle mani che tenevano stretto quel mistero vibrante: un cucciolo d’uomo che era anche Dio.
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