La grazia e il dolore
Ruth è una ottantenne alta e ancora attraente, con i primi sintomi amnesici dell’Alzheimer: ha ricordi confusi e non riconosce tutte le persone a lei care. È tuttavia autosufficiente e vive da sola in una casa pulita, funzionale e ben arredata. Tocca al figlio Steve (che la mamma scambia per un corteggiatore) condurla in una lussuosa residenza assistenziale specializzata nella rieducazione neurologica. Era un accordo siglato tra loro, ma di cui Ruth non si ricorda. Si compie così un doloroso rito di passaggio, in cui però Ruth non si lascia distruggere dall’angoscia del nuovo.
L’inserimento è inevitabilmente problematico ed è complicato dal fatto che l’elegante signora ha conservato importanti abilità e porta con sé affetti, vitalità, delicatezza nella conversazione e acutezza intuitiva, cui giustamente non intende rinunciare. Ruth ha i suoi ritmi, gusti, ambizioni e sfoggia preziose competenze: è un’ottima cuoca e ha scritto libri in proposito, cosicché ha da insegnare allo staff infermieristico e alberghiero. Il suo tocco rende familiari sapori e odori che parrebbero incompatibili. Non solo. Ruth custodisce una postura corporea sciolta e raffinata, simile a quella di una danzatrice. Possiede un fascino aristocratico contagioso nel truccarsi, vestirsi, prepararsi agli incontri, dialogare col medico. Chi la circonda non sempre capisce che Ruth esige di essere trattata alla pari dei cosiddetti «sani», nonostante le sue disabilità cognitive, in merito alle quali mostra persino un atteggiamento ironico. Ruth ha difficoltà adattative, ma anche gli altri ospiti, lo staff sanitario e l’istituzione si trovano impreparati ad accogliere uno stile esistenziale dolce e assieme esigente, fatto di strani silenzi, di fughe divertenti, di intenti educativi, di un’originalità comunicativa commovente e poetica.
Religiosamente, potremmo chiamarla «grazia». Una grazia che addomestica il dolore, la separazione, la malattia. Una curiosità: la Villa Gardens esiste davvero a Pasadena (California) e alcuni degenti hanno partecipato alla realizzazione del film Un tocco familiare (Familiar touch), che nasce da esperienze reali rappresentate dalla sceneggiatura. La regista Sarah Friedland è alla sua prima prova e punta (con sottile affinità di genere) sulla versatilità della prodigiosa attrice protagonista Kathleen Chalfant, una maschera teatrale mobilissima e fascinosa, la quale fa della pellicola un esemplare racconto di formazione, poiché tutti maturiamo invecchiando, gestendo la vulnerabilità, dando e ricevendo aiuto senza vergogna. Il cinema ci rivela ciò che saremo e ci mostra ciò che già siamo: esseri dipendenti, deboli, bisognosi di affetto, portatori di una creatività spirituale cui non si deve rinunciare per nessuna ragione. Il cinema porta alla memoria sogni mai visti e pretende che diamo fiducia a un racconto dalle speranze impreviste. Il cinema è una cucina dei sentimenti: occorrono tempi adeguati di cottura, ingredienti genuini, gusto per i sapori, obbedienza alle leggi degli alimenti. Le verdure e il salmone carezzati da Ruth si trasformano in «nature morte» belle come in un quadro d’autore.
Nel ricevere con gioia e fierezza il premio per la Miglior regia nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia del 2024, la regista ha espresso pubblicamente le sue opinioni politiche. «Come artista americana ebrea, sono solidale col popolo palestinese e con i suoi sforzi di liberazione. Di fronte ai 336 giorni di genocidio israeliano a Gaza e ai 76 anni di occupazione, chi lavora nel cinema ha la responsabilità di rimediare all’impunità d’Israele su scala mondiale». Una dichiarazione molto netta, che ha suscitato polemiche: diverse agenzie non l’hanno condivisa e qualcuno ha parlato di un’ebrea privilegiata che insegue la moda e fa propaganda indiretta per Hamas. In realtà, le parole della Friedland sono in sintonia col contenuto della pellicola: l’ospitalità fonda una politica per il futuro; la violenza opprime i diversi, i deboli, i poveri e prepara un mondo perennemente aggressivo e invivibile per tutti.
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