La madre del piccolo Badal: non avrò pace senza giustizia
Un bip nel cellulare, un messaggio come tanti. Nella foto un bambino minuto, pelle ambrata, i lineamenti dolci della preadolescenza. Guardo meglio. Mi accorgo che è morto. I capelli sulla fronte sono a grumi, forse impastati di sangue. Un pugno allo stomaco. Una foto da Faisalabad, città del Pakistan, il luogo in cui Caritas Antoniana, grazie ai lettori del Messaggero di sant’Antonio, ha sostenuto molti progetti, attraverso un’attivista dei diritti umani, Razia Joseph, morta un anno e mezzo fa. Tra i progetti una scuola che dava un futuro ai bambini poveri, per lo più cristiani o appartenenti a minoranze, strappati alla strada o ai lavori forzati. Questo bimbo nella foto potrebbe essere uno dei suoi.
Guardo chi l’ha spedita: Joel Amir Sohotra, ex membro del parlamento del Punjab per le minoranze. Un parente di Razia, anche lui in prima linea per i diritti umani. È indignato, arrabbiato, tristissimo: «I fondamentalisti hanno ucciso un bambino di 11 anni, solo perché era cristiano e povero. Chiedo, chiediamo giustizia. Perché chi si macchia di questi reati non viene perseguito nel nostro Paese».
Una foto che è un messaggio in bottiglia. Cerco in rete. Asianews, l’agenzia di stampa della chiesa asiatica ha diffuso la notizia. I particolari sono raccapriccianti: Badal ha 11 anni ed è figlio di un tossicodipendente. La madre Sareefan Bibi – nome che ricorda la tristissima vicenda di un’altra cristiana, Asia Bibi – è una domestica, l’unica a portare i soldi a casa. Badal è al suo primo anno di scuola, perché prima non c’era il denaro per iscriverlo ai corsi. Però vuole aiutarla e accetta un lavoretto: raccoglie rifiuti nella discarica di Ifran, un musulmano, poco distante da casa. Il salario va dalle 50 alle 100 rupie al giorno, che corrispondono a 0,28-0,56 euro. Per necessità urgenti Badal chiede al padrone un prestito di 180 rupie, circa 1 euro. Ma dal giorno dopo il padrone inizia a molestarlo. Badal torna a casa, si fa ridare i soldi dalla madre, li restituisce al padrone, dicendogli che non sarebbe più tornato a lavorare per lui. Ifram lo prende come un affronto. È furibondo. Con l'aiuto del fratello colpisce a sprangate il bambino. Accorre anche la madre, che lo trova in un lago di sangue. È lei a dire per prima che il piccolo ha subito anche violenze sessuali.
Joel è implacabile: «Ho parlato con la madre, ma ho anche mandato un membro del mio staff per dare ascolto e conforto alla famiglia e puntare i riflettori sulla vicenda: Sareefan è sopraffatta dal dolore. Dice che suo figlio è innocente e che gliel’hanno barbaramente ucciso per nulla». La donna, ancora sotto shock, ricorda il figlio: «Mi manca tantissimo. Era un bambino dolce, obbediente, voleva solo aiutarmi. Non avrò pace fino a quando mio figlio non otterrà giustizia».
Nella sua rabbia indignata Joel mi ricorda Razia: «In Pakistan basta essere poveri e cristiani per non contare nulla. Chiedo al governo a gran voce di assicurare i colpevoli alla giustizia. Non ci sono parole per questo dolore. È un atto che dimostra la mentalità malata degli estremisti nella società pakistana. Donne e bambini non sono più al sicuro a causa della loro fede. Io condanno in maniera assoluta questi atti terribili di discriminazione religiosa. Possa Dio proteggere i cristiani del Pakistan».
Parole pesanti come macigni, in un Paese strangolato dal fondamentalismo. Parole coraggiose. «Vorrei che venissi a trovarmi – mi diceva Razia –. Verrai quando finirà l’odio». Ma lei è morta prima che l’odio finisse e i bambini come Badal hanno sempre meno angeli custodi, disposti a battersi per loro. Badal è morto affrontando l’ombra, a noi non resta che accendere la luce e lottare contro il male, chiamandolo per nome.