L'Africa in cerca di identità
Da diversi anni, in Africa, tra gli intellettuali come anche nei circoli della politica, vi è la diffusa convinzione che l’attuale assetto geopolitico del continente rappresenti un fattore destabilizzante, con particolare riferimento alle aree di crisi come il Corno d’Africa e la Regione dei Grandi Laghi. D’altronde, l’Africa ha una configurazione dei confini tra gli Stati relativamente recente, ereditata dal Congresso di Berlino (1884-1885) quando le ex potenze coloniali affermarono un presupposto giuridico (non esplicitamente rintracciabile negli atti ufficiali del Congresso) che venne posto a fondamento del loro agire. Vale a dire la distinzione tra quei Paesi dotati di una sovranità riconosciuta dalle corone europee, e quelle macro-regioni che ne erano prive.
L’Africa fu considerata priva di personalità giuridica e così, nel breve volgere di alcuni lustri, venne quasi interamente occupata militarmente dalle potenze europee. Col risultato che gli oltre 800 gruppi etnici che popolano il continente – alla prova dei fatti, vere e proprie nazioni – sono stati parcellizzati all’interno di realtà statuali coloniali disegnate, per così dire, a tavolino. Questa è la ragione per cui oggi, a distanza di oltre un secolo dal Congresso di Berlino, in un Paese tra i tanti, come l’Uganda, vi sono gruppi etnici come i Madi, gli Acholi, i Pokot che, in parte, sono stanziali sul territorio nazionale, in parte nei Paesi limitrofi.
Secondo il compianto Joseph Ki-Zerbo, intellettuale burkinabé, curatore della grande storia dell’Africa per l’Unesco, con l’esperienza e la pacatezza che gli derivavano dall’età e dalla saggezza, ha sempre insistito nell’affermare che «la colpa non è da attribuire all’indipendenza (degli Stati africani, ndr), ma alla fallita decolonizzazione. L’oppressione e il dominio esercitati dall’Occidente sull’Africa non sono cessati con la proclamazione delle indipendenze. Il neocolonialismo non è che un’altra forma di dominio mantenuta anche attraverso la conservazione delle frontiere ereditate dal periodo coloniale». Ecco perché Ki-Zerbo riteneva che le frontiere dell’Africa dovessero essere «ridisegnate, con una decisione coraggiosa che i padri fondatori dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) non hanno avuto la lungimiranza di prendere a suo tempo».
In effetti, quando nacque l’Oua, nel 1963, i leader africani stabilirono due presupposti politici: il principio di «non ingerenza» negli affari interni dei singoli Stati, e «l’intangibilità delle frontiere». Riguardo alla non ingerenza, la nascita dell’Unione Africana, nel 2002, ha certamente rappresentato un superamento, almeno in linea di principio, di questo assioma, mentre sulla questione dei confini l’orientamento è sempre incentrato sul mantenimento della geografia coloniale. Eppure, la secessione, prima dell’Eritrea dall’Etiopia nel 1993, come anche quella del Sud Sudan dal Nord Sudan nel 2011, costituiscono, di fatto, un precedente che potrebbe preludere a nuovi assetti.
Ciò che si teme maggiormente è il fatto che questi processi possano sfuggire di mano come, di fatto, sta già avvenendo proprio nel Sudan meridionale dove si è scatenata l’ennesima guerra civile. Peraltro, l’implosione della Libia, con l’uscita di scena del regime di Gheddafi, e la recente crisi della regione dell’Oromia, in Etiopia, la dicono lunga sul rischio di nuove cruente conflittualità.
Lo storico congolese di Brazzaville, Théophile Obenga, ritiene che l’unità politica sia «una condizione necessaria per avviare un decollo decisivo dell’Africa dal punto di vista economico». Questo, in sostanza, significa che forse oggi il vero antidoto sta proprio nel realizzare i sogni e le attese dei grandi fautori del panafricanesimo: presidenti del calibro di Kwame N’krumah (Ghana), Léopold Sédar Senghor (Senegal) o Julius Nyerere (Tanzania). Purtroppo, negli anni Sessanta del secolo scorso, quella visione, all’insegna della négritude, naufragò ma potrebbe essere un modo, rafforzando l’Unione Africana, per consolidare il sentimento di appartenenza a culture omogenee, valori comuni condivisi, e una coesione sociale che la globalizzazione ha negato.