L’«altra» Costituzione
Da anni «si è radicata in me la convinzione che ciò che la Costituzione dice spesso non corrisponde a ciò che le persone fanno sia nel privato sia nell’ambito delle istituzioni. Come se esistesse una Costituzione ufficiosa, più praticata di quella ufficiale. Mi è venuta così l’idea di individuarla, questa Costituzione “occulta” che gli italiani, e più generalmente quanti vivono in Italia, seguono, e di metterla a confronto con quella scritta: con quella, cioè, che dovrebbe essere seguita». A dirlo, Gherardo Colombo, magistrato – ex giudice ed ex pm –, autore di alcune tra le più importanti inchieste della fine del secolo scorso. Da pochi mesi, è in libreria con il volume Anticostituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società, un pamphlet che prende di mira, in modo sottile e intelligente, alcune (pessime) caratteristiche del «popolo italico».
Capitolo dopo capitolo, Colombo analizza molti degli articoli della nostra Carta Costituzionale (che proprio quest’anno compie 75 anni di vita, essendo entrata in vigore il 1° gennaio del 1948), mettendo in parallelo teoria e prassi, cioè il testo originario e quello liberamente reinterpretato a livello sociale. Ed ecco allora che a fronte dell’articolo 1 («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione») compare il suo omologo «ombra» («L’Italia è una repubblica democratica a tendenza monarchico-feudale, fondata sul lavoro e sulla rendita. La sovranità appartiene al popolo, che tende a evitare di esercitarla per non essere chiamato a risponderne»), in un curioso gioco di specchi dal sapore amaro.
Msa. Da dove nasce l’idea del libro?
Colombo. Da una semplice constatazione di ciò che succede. Una constatazione che chiunque può fare anche se a me forse è venuto più facile, grazie al lavoro di magistrato svolto per molti anni e a tutta l’opera di divulgazione e sensibilizzazione sui temi della legalità che ho fatto successivamente nelle scuole, nei circoli, nelle associazioni. E, secondo me, è proprio evidente che esista questo gap, questa discrepanza tra i comportamenti e la legge. Così ho voluto farlo vedere chiaramente.
Ma è un fenomeno solo italiano?
Non credo sia solo italiano, però qui la differenza è notevole e piuttosto costante. Le faccio un esempio: la discriminazione di genere che esiste in Italia non c’è in Germania. E quindi in Germania il comportamento è più coerente con la legge.
Nel libro lei dà una lettura interessante anche dell’astensionismo che coinvolge in misura sempre maggiore gli elettori italiani.
L’esercizio della sovranità che il popolo dovrebbe compiere comporta la responsabilità di averla esercitata. Ma l’italiano non ama la responsabilità e, di conseguenza, preferisce evitare di esercitare la sovranità, per non essere chiamato a risponderne. La paura della responsabilità è molto italiana. Basti pensare a quanto successe il 2 giugno del 1946, con il referendum istituzionale con il quale si trattò di scegliere se vivere in una repubblica o in una monarchia. Si scelse la repubblica ma per un numero di voti piuttosto limitato: su 23 milioni quasi di voti validi, 12 milioni e rotti furono per la repubblica e più di 10 milioni per la monarchia. Tutt’altro che un plebiscito. E in alcune zone d’Italia la monarchia vinse a man bassa.
Lei scrive che l’articolo 3 della Costituzione «è il caposaldo, il fondamento, la pietra angolare della Costituzione». Un testo che ruota attorno a una parola chiave: discriminazione. Perché è così importante?
L’articolo 3 – insieme al 2 che è strettamente collegato – potremmo dire che «è» la Costituzione. Parla di dignità sociale e di uguaglianza e di rimozione degli ostacoli che le impediscono. Ma oggi è evidente che non si pratica la pari dignità di tutte le persone. La discriminazione (di genere, etnia, lingua…) è diffusa, eppure, spesso, non viene percepita come tale, e i carichi e le responsabilità sono distribuiti in modo asimmetrico. Per molti, per esempio, è «giusto» che gli «italiani» contino di più dei «non italiani», e che questi ultimi abbiano meno diritti dei primi anche se nati e cresciuti in Italia. Ed è «giusto» che le donne siano un gradino sotto agli uomini. È il peso dell’eredità di millenni in cui le società si sono organizzate per discriminazione. E questo vale anche per quanto riguarda le condizioni personali e sociali che sono quelle a cui generalmente si presta meno attenzione.
Ma ci sono altre due parole chiave presenti tra i principi fondamentali della Costituzione e che fanno da sfondo al suo libro: diritti e doveri.
Diritti ce ne sono parecchi nella vita reale, ma molto limitatamente per certi versi. Mi viene in mente, per esempio, il diritto a una retribuzione che garantisca una vita libera e dignitosa (art. 36 della Costituzione). Ma su questo punto siamo indietro anni luce per tantissime persone e non perché la Costituzione non lo preveda, bensì per il comportamento dei cittadini. E per quanto riguarda i doveri, beh, basti pensare al dovere di solidarietà, a cui sono collegati direttamente o indirettamente tutti gli altri doveri: non è che sia molto praticata dagli italiani, ammettiamolo. La prima espressione del dovere di solidarietà, sotto il profilo della rilevanza economica, è quello dell’obbligo di pagare le tasse: ma allora come mai in Italia l’evasione fiscale è così diffusa?
E quanto a «memoria» come stiamo?
La memoria è un elemento essenziale. Conta per l’individuo, perché senza memoria non sappiamo chi siamo, diveniamo disorientati, perdiamo identità. Ma conta, e molto, anche a livello collettivo. La memoria è fondamentale per vivere il presente, ma anche per progettare il futuro, perché ci fornisce i parametri per poter fare delle scelte. Noi non possiamo scegliere se non conosciamo e la memoria è la sede della conoscenza e delle esperienze.
Ma, in definitiva, che cosa potrebbe aiutare la nostra democrazia a divenire adulta?
Secondo me la democrazia per essere tale deve essere partecipata. L’articolo 1 della Costituzione che dice che «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro» vuole significare che l’Italia può essere una democrazia soltanto se i cittadini lavorano perché sia una democrazia, comportandosi in modo da contribuire a gestire l’amministrazione della società. «Governo del popolo» vuol dire che tutti insieme governiamo, amministriamo la società. Ma per far questo è anche necessario votare. E invece nelle ultime elezioni regionali, in Lazio, per esempio, è andato al voto meno del 40 per cento degli aventi diritto. E allora come possiamo pretendere che la democrazia funzioni? Che poi tutto si ricollega sempre e ancora al discorso sulla responsabilità e quindi al fatto che si preferisce astenersi piuttosto che fare una scelta. Anche le giovani generazioni avrebbero un gran bisogno di essere aiutate e invece noi adulti le stiamo mettendo in grandissima difficoltà sotto tanti profili: pensiamo alle tante guerre nel mondo, ai gravi problemi ambientali, al lavoro spesso precario e poco retribuito, ma anche alla sanità, che è sempre meno alla portata di tutti. Gli adulti dovrebbero essere anche qui un po’ più responsabili e non educare i ragazzi a comportarsi nel modo in cui oggi si comportano loro, ma dare esempi positivi e diffondere con ogni strumento a disposizione un modo di intendere le relazioni sociali diverso da quello praticato. Cioè, diffondere il senso della Costituzione.
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