Lettere dall'inferno
Sulla carta ingiallita del biglietto postale, la scrittura è ancora nitida, di calligrafia elegante e fittissima, per non sprecare neppure uno spazio. «Mia adorata Armanda, sono addolorato tua malattia. Io bene ma ansioso. Amorosamente abbraccioti». E poi la firma, «Brunotuo»: così, una sola parola. Dal campo di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena), dove era arrivato il 7 dicembre 1943, Bruno De Benedetti, pediatra genovese 32enne di famiglia ebrea, scriveva alla moglie praticamente ogni giorno, anche due lettere per volta. Quando riusciva ad aggirare le maglie della censura (e la lettera usciva dal campo tramite una mano amica), poteva aprire la porta del cuore: raccontava le sue giornate lunghe e faticose, la sofferenza delle privazioni e della lontananza, il freddo pungente che non congelava però l’amore e il desiderio di libertà. E cercava anche di accendere qualche scintilla di fiducia: «La speranza di poter finalmente ritornare accanto a te è tanto forte da farmi desiderare qualunque cosa pur di poter ritrovare con te la felicità nostra».
Da Fossoli il medico vedeva «sparire» centinaia di persone, su treni diretti verso destinazioni che si potevano soltanto immaginare o temere. «Questa mattina sono partiti i miei zii – confidava il 22 febbraio 1944 –. Io ho avuto la fortuna di rimanere per le pratiche in corso, ma sono atterrito»: su quello stesso disperato convoglio, proprio quel giorno, era salito anche Primo Levi che ci ha lasciato la sua storia, scolpita nelle pagine di Se questo è un uomo. Col passare dei mesi si accorgeva che quell’incubo diventava sempre più cupo, eppure non mancava di rassicurare la sua Armanda: «Se senti cose, stai tranquilla, io sto bene», scriveva il 12 luglio 1944 dopo che le SS, per rappresaglia, avevano fucilato a Cibeno sessantasette prigionieri del campo. Pochi giorni più tardi, però, anche Bruno dovette salire sull’ultimo treno da Fossoli: i tedeschi sentivano avvicinarsi gli alleati e avevano deciso di smantellare il campo. Era il 31 luglio 1944: «Armandina mia, aspettami sempre: ritornerò. Arrivederci presto, ti stringo a me con tutta la disperata forza del mio affetto». Arrivò ad Auschwitz il 6 agosto, poi fu trasferito a Dachau e morì a Kaufering il 31 dicembre 1944. A guerra conclusa, la mamma andò tutti i giorni alla stazione di Genova col desiderio di vederlo scendere da un treno. Solo il 26 marzo 1949 una comunicazione della Croce Rossa spense anche l’ultimo lumicino di speranza.
Una Fondazione per non dimenticare
Sono 149 le lettere che Bruno De Benedetti spedì alla moglie Armanda Martelli. Lei le conservò sempre, insieme ad altre quattordici buste che gli aveva inviato nel luglio ’44 ma erano ritornate al mittente, perché Bruno al campo non c’era più. Era forse destino che quel carteggio, un diario toccante della vita in un campo di dolore, tornasse là dove è nato: nei mesi scorsi, infatti, Lucia Amelotti (che lo ha custodito in questi anni) lo ha depositato alla Fondazione Fossoli che lo digitalizzerà per metterlo a disposizione degli studiosi e soprattutto dei giovani. «I sentimenti, le paure e le speranze di Bruno De Benedetti ci permettono di conoscere più a fondo le vicende, anche soggettive, della pagina più terribile della storia del Novecento», sottolinea Marzia Luppi, direttrice della Fondazione che tutela la memoria di quello che fu il campo nazionale della deportazione dall’Italia, e ha lanciato la campagna «Salva una storia», rivolta a tutti coloro che sono in possesso di lettere, fotografie, diari od oggetti legati alla guerra e alla ricostruzione: donandoli alla Fondazione li si potrà sottrarre all’oblio e farne un patrimonio comune.
Bruno De Benedetti era nato nel 1911: sua madre Bice era una delle prime donne laureate in Economia in Italia. Bruno invece aveva scelto Medicina: si era anche arruolato come sottotenente medico volontario nella guerra di Spagna. Sposò Armanda, una goj, non ebrea, e in un documento fece scrivere che «aveva abbracciato la religione cattolica». Nel 1938 dunque ottenne la cosiddetta «discriminazione», ovvero la possibilità di continuare il suo lavoro, nonostante le leggi razziali avessero escluso gli ebrei da incarichi o professioni. Ma neppure questo riuscì a salvarlo dalla tragedia. Quando videro che la situazione per gli ebrei italiani stava precipitando, il 30 novembre 1943 i De Benedetti riuscirono a passare clandestinamente in Svizzera: Bruno li salutò in piazza a Como, promettendo che li avrebbe raggiunti il giorno dopo. Ci provò, in effetti, ma venne bloccato a Mendrisio: un suo ex commilitone lo riconobbe, finse di volerlo aiutare e lo fece arrestare. «Al campo di Fossoli, lo zio venne assegnato all’ambulatorio-infermeria: lavorava moltissimo, e nelle lettere scrive che in alcune giornate doveva visitare fino a 500 persone», rievoca l’avvocato Filippo Biolé, nipote di Lia De Benedetti, sorella del medico, che ha raccolto da Franca, l’altra sorella, la testimonianza orale di quella storia per molti anni rimasta chiusa nei cassetti della memoria familiare. «Da queste lettere ho conosciuto mio zio», ammette Biolé che ora porta anche nelle scuole il racconto di quel dramma.
Il campo italiano
Alla Fondazione Fossoli, la documentarista Marika Losi sfoglia con noi le lettere del medico, racchiuse in un faldone. «Così frequenti e ravvicinate, sono quasi una cronistoria del campo – spiega –. Ne emerge un senso di sospensione, la preoccupazione per il domani, per la moglie a casa». E come nelle lettere di Ada Michlstaedter Marchesini, che fu deportata a Fossoli dall’aprile 1944, si avverte l’urgenza della scrittura, unico contatto con il mondo esterno: «Da queste scritture noi ricaviamo una memoria plurima», aggiunge la ricercatrice. A Fossoli furono internati più di 2.840 ebrei italiani che, tra il febbraio e i primi d’agosto 1944, furono deportati nei lager oltreconfine (soprattutto ad Auschwitz) in sette convogli ferroviari. Le prime strutture del campo vennero costruite nel 1942 dal Regio Esercito come sito di prigionia per i militari nemici: nel dicembre 1943 la Repubblica Sociale italiana lo trasformò in campo di concentramento per gli ebrei, e dal marzo 1944 divenne Polizeiliches Durchgangslager, ovvero campo poliziesco e di transito sotto il controllo delle SS. Da Fossoli passarono ebrei, internati politici e razziali. Dopo la guerra, fino al maggio 1947, fu centro di raccolta per i profughi stranieri, e subito dopo arrivarono a occuparlo i Piccoli Apostoli di don Zeno Saltini, il sacerdote che qui creò il primo nucleo della comunità di Nomadelfia.
Dal 1954, poi, il campo divenne la «casa» dei profughi giuliano-dalmati che vi fondarono il Villaggio San Marco e vi rimasero fino ai primi mesi del 1970. Le baracche che ancora sopravvivono (e si possono visitare anche con la guida di una speciale app) sono la memoria viva di tutte queste stratificazioni: «I restauri avviati la scorsa primavera, che contiamo di concludere nel febbraio 2023, vogliono mantenere le tracce di tutte le persone che sono passate in questo luogo», annota la direttrice Marzia Luppi. E il messaggio del campo di Fossoli si completa con le «voci», i graffiti, i nomi che ancora ci parlano al Museo Monumento al deportato, al Palazzo dei Pio, nel cuore di Carpi. Luoghi fondamentali per sentirsi parte di una Storia che deve continuare a interrogare noi e le generazioni future: nel Giorno della memoria, che si celebra il 27 gennaio di ogni anno, ma soprattutto nella memoria di ogni giorno.
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