L’iniquità non porta pace
In italiano usiamo la parola «pace» riprendendola dal latino e da una radice indoeuropea che evoca l’idea del patto, dell’accordo indispensabile per risolvere in modo incruento un conflitto. Ma in questo «viaggio nel tempo», andando alla riscoperta della sapienza degli antichi, è particolarmente illuminante guardare anche alla Grecia classica. In quel mondo, dove ogni mito aveva un affascinante valore simbolico, la dea della pace veniva chiamata Eirene, era figlia di Zeus e di Temi ma soprattutto era sorella di Dike (la giustizia) e di Eunomia (l’ordine, il buon governo). Fermiamoci a riflettere, perché già la semplice unione di questi tre concetti disegna in modo perfetto quella che in tempi moderni è stata chiamata la «pace positiva», che non è soltanto l’assenza dei conflitti armati, ma è cooperazione e convivenza civile basata però su quel principio di equità richiamato innumerevoli volte dagli ultimi Pontefici. Non a caso nella nostra lingua è presente oggi l’aggettivo irenico (parola rara ma non astrusa, dicono i dizionari), per indicare ciò che promuove e che ispira la vera pace, che non può essere mai disgiunta dalla giustizia, perché altrimenti non può reggere, durare.
A questo punto, a chiunque sia animato da un minimo di «buona volontà», viene spontaneo chiedersi se nel mondo attuale ci sia quell’equilibrio rispettoso di ogni comunità che costituisce la fondamentale premessa di una stabilità che faccia da garanzia contro le guerre. La risposta, purtroppo, è negativa. Basta dare un’occhiata al Rapporto Sociale 2025 delle Nazioni Unite per averne piena consapevolezza. Ci dice che il nostro Pianeta è segnato da enormi disuguaglianze: 700 milioni di persone «tirano avanti» con poco più di due dollari al giorno, 2 miliardi e 800 milioni con meno di sette. I Paesi dove vivono sono poi soffocati dai debiti che non potranno mai essere onorati e che erodono ulteriormente le loro risorse per l’inesorabile peso degli interessi. Una situazione di così marcata disuguaglianza ha delle conseguenze evidenti. Nelle nazioni più povere la disputa per le poche risorse è durissima, nelle altre (afflitte peraltro da una distribuzione della ricchezza concentrata in pochissime mani) cresce la paura di perdere il benessere rimasto. Sono processi noti, che si perpetuano nel tempo, ma che non vanno mai dimenticati. La narrazione dominante tende a nasconderli, non parla mai, ad esempio, della ricaduta sul sociale determinata dall’enorme incremento globale della spesa militare, tra tutte la più improduttiva, finalizzata a distruggere, non certo a tutelare l’umanità.
Ed eccoci al punto. Deliberatamente non ho citato nessun caso specifico, perché ci sono momenti nei quali le istanze a sostegno della pace devono superare qualsiasi logica del «noi contro di loro». Dico solo che, nell’assoluta indifferenza dei governi di Oriente e Occidente (qualsiasi cosa questi poli significhino), in Sudan (Africa non lontana da noi) ci sono 10 milioni di sfollati e 30 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, metà delle quali bambini. Tutto questo è accettabile? È sufficiente tacere e fare così finta che il problema non esista? Mi viene alla mente un altro concetto risalente a tremila anni fa, legato alla saggezza cinese ma ripreso poi dal pensiero migliore anche in Europa: viviamo tutti sotto un unico Cielo, gli egoismi competitivi non producono nulla. In questo 2025 moltissimi italiani, giovani e anziani, sono scesi in piazza nel nome della pace, contro morte e distruzione. Oso immaginare che il moto che ha portato tante persone a solidarizzare con le vittime innocenti di Gaza sia un seme di speranza destinato a maturare nell’anno che verrà.
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