L’odio corre in Rete

L’«hate speech», cioè il discorso d’odio, rappresenta un grave problema nel mondo online. A farne le spese sempre più spesso migranti, donne e persone disabili.
10 Gennaio 2023 | di

Agli inizi di novembre un neonato di appena 20 giorni è morto di freddo su un barchino diretto verso l’Italia. Aveva disturbi respiratori: la mamma, sperando di poterlo curare nel nostro Paese, aveva affrontato il mare con un difficile viaggio. Ma a Lampedusa il bimbo è arrivato senza vita. Quando la notizia è stata pubblicata sui social, ha suscitato tante reazioni sconcertate e commosse, però al contempo ha scatenato anche una tempesta di parole malevole: «Daje, con la morte del bimbo le cooperative ci faranno marketing», «Prendeteveli a carico voi certi “rifugiati”...», «E cosa potremmo fare noi che non possiamo neanche più scaldarci». Nemmeno un briciolo di pietà per una piccola vita spezzata.

Negli ultimi anni si è assistito a un incremento notevole dell’odio online, in tutte le sue forme. Lo confermano i dati presentati dal Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni a un convegno presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove da qualche tempo è nato il progetto Mediavox, osservatorio sull’odio in Rete: nel 2021 sono stati denunciati quasi 5 mila casi di reati compiuti attraverso il web e, tra questi, oltre allo stalking e al revenge porn, emergono 806 denunce relative a minacce e 2.455 per diffamazione online. Il problema è che dietro alla tastiera ognuno si sente libero di scrivere ciò che vuole, sfogando tutta la propria rabbia o frustrazione. Così l’hate speech, il discorso d’odio, si diffonde in Rete quasi senza limiti, propagando razzismo, antisemitismo, violenza verbale. Al punto che la stessa senatrice Liliana Segre, presa di mira dai no vax anche con una campagna denigratoria su Twitter, ha deciso di denunciare: «Per tanto tempo sono stata in silenzio su queste persone che mi insultano, ma adesso non più».

Il barometro dell’odio

Il problema è complesso e se ne discute già da qualche anno. Eppure fino a qualche mese fa non esisteva una definizione internazionale univoca su quello che intendiamo per «discorso d’odio». Soltanto lo scorso maggio a Torino, durante i lavori del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è stata adottata una raccomandazione, rivolta a tutti gli Stati membri, in cui si fissano le caratteristiche dell’hate speech, ovvero «ogni tipo di espressione che incita, promuove e diffonde o giustifica violenza, odio o discriminazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone o che li denigra, in ragione di caratteristiche personali o status reali o attributi come “razza”, colore, lingua, religione, nazionalità, origine nazionale o etnica, età, disabilità, sesso, identità di genere e orientamento sessuale».

I potenziali «bersagli» sono tanti: immigrati, minoranze etniche, gruppi religiosi o sociali, ebrei, disabili, islamici, rom, omosessuali, avversari politici e, dopo la pandemia, anche medici o ricercatori. «Anche nel 2021 i maggiori target dei discorsi d’odio sono stati sempre loro: le persone migranti o quelle con un background migratorio, le donne e, come già nel 2020, gli individui o le organizzazioni impegnate in attività umanitarie e solidali», ha sottolineato il professor Federico Faloppa dell’Università di Reading (Regno Unito), coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, introducendo la più recente edizione del Barometro dell’odio di Amnesty International. E l’odio online può avere tanti volti: può manifestarsi sotto forma di insulti o ethnic slurs, epiteti dispregiativi, affermazioni e sentenze diffamatorie, fino ad arrivare alle vere e proprie minacce. Intendiamoci: l’odio e i comportamenti ostili sono sempre esistiti, e ben prima che nascesse la Rete.

Ma internet e il web, con la loro potenza, hanno permesso di allargare moltissimo la platea delle espressioni rabbiose e taglienti, e di diffonderle più rapidamente. Criminalizzare a priori la Rete, tuttavia, non sarebbe giusto: «L’aggressività, la rabbia e la violenza rientrano nelle dinamiche intrinseche, biologiche e psichiche degli esseri umani – ha fatto notare in un saggio la professoressa Milena Santerini, coordinatrice nazionale per la lotta all’antisemitismo –. Il discorso d’odio ha però assunto nuove caratteristiche con l’espansione rapidissima delle tecnologie connettive». «Non è sempre facilmente dimostrabile l’assunto secondo cui internet avrebbe agevolato l’aumento delle esternazioni violente e avrebbe portato a un clima di odio diffuso – ha scritto anche il professor Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica, nel suo libro L’odio online, edito da Raffaello Cortina –. Su un altro versante, si sostiene che la Rete, il mezzo, avrebbe direttamente condizionato il livello dei toni. Insomma, la Rete non sarebbe più neutra, ma avrebbe contribuito a creare un ambiente con incidenza diretta sulle espressioni usate».

Senza dubbio «il web sociale offre una forza d’impatto mai conosciuta in precedenza – argomenta pure il professor Stefano Pasta, pedagogista dell’Università Cattolica, autore e coordinatore di varie ricerche su questi fenomeni –. Anche le fake news non sono invenzioni del web sociale, ma su questi canali acquisiscono una potenza totalmente diversa». È indubbio, dunque, che alcune caratteristiche della comunicazione digitale creino un terreno fertile per i discorsi d’odio. Ce lo spiegano bene gli psicologi. Il nostro cervello può assumere le decisioni attraverso due modalità: il pensiero riflessivo, più razionale (il cosiddetto «pensiero lento») e quello intuitivo, spesso legato all’immagine (il «pensiero veloce»). «Alcuni studi ci dicono che, quando siamo nel web sociale, molte più decisioni vengono prese in base al pensiero veloce», ricorda il professor Pasta. Dunque guardiamo un’immagine, una vignetta o un meme (un’immagine o un video che si propaga, spesso per imitazione, su web, diventando famoso) satirico, oppure leggiamo una frase o il titolo di una notizia e ci facciamo subito un’idea, spesso senza pensarci due volte, sulla scia di un’emozione (o di una passione) che si infiamma.

Come se non bastasse, bisogna poi tener presente che sui social si crea il cosiddetto «effetto alone» che va di pari passo con la «spirale del silenzio»: in sostanza, il desiderio di sentirsi più popolari porta a rilanciare le opinioni che fanno più rumore, mentre chi magari la pensa diversamente preferisce stare zitto per non sembrare la «pecora nera» che va in un’altra direzione (che magari, però, potrebbe essere quella migliore). Emerge quindi chi urla più forte. Inoltre, gli algoritmi dei social «studiano» i nostri like e le nostre interazioni, e ci presentano sempre più contenuti vicini a quanto abbiamo già «apprezzato». In questo modo una parola d’odio può amplificarsi e passare di bocca in bocca (o di tastiera in tastiera) a una velocità incredibile.

Un altro aspetto da tener presente è che in questo nostro tempo (che molti definiscono per questo motivo della post-verità) contano più le emozioni e le convinzioni personali, rispetto ai fatti oggettivi, fenomeno pure questo amplificato dalla Rete: «Il web vive di emotività, e le piattaforme dei social media si trovano quindi a gestire quello che possiamo chiamare il “mercato delle emozioni” – ha rimarcato Milena Santerini –. Vari studi su Facebook o Twitter hanno provato che parole di carattere emozionale (lotta, guerra, male, punizione) o che inducevano ansia o rabbia avevano più probabilità di essere condivise». E proprio su questi meccanismi possono fare leva gruppi organizzati di haters, capaci di fomentare l’odio e di orientare le opinioni correnti.

In più, quando si naviga sui social, la distanza fisica e la mancanza di un contatto «vero» danno un’impressione di libertà che riduce le inibizioni. Ci si sente protetti dall’anonimato, nascondendosi dietro false identità, e questo a volte porta a giustificare qualsiasi insulto. «In realtà, solo pochissimi esperti riescono a non lasciare tracce in Rete: il social web è l’opposto dell’anonimato», ribadisce Stefano Pasta. Non a caso, amiamo ricevere like o guardare contenuti pubblicati da altri per mettere a nostra volta un «mi piace», dimenticando che ogni like ci traccia e fa pure guadagnare chi genera traffico e visualizzazioni in Rete.

Non è uno scherzo

«L’odio postmoderno è connesso e dematerializzato, istantaneo e asimmetrico», è l’analisi del professor Ziccardi. C’è l'odiatore, l’hater militante, spesso strutturato, e c’è invece chi – talora con poca consapevolezza – scrive un commento velenoso. Questo avviene anche tra i giovanissimi: sempre più spesso le cronache ci raccontano tristi episodi di cyberbullismo, alcuni con esiti tragici. Come la storia di Carolina che, nel gennaio 2013, si è tolta la vita a Novara dopo esser stata denigrata in Rete da suoi coetanei: aveva soltanto 14 anni e non ha sopportato il peso di quelle ingiurie. «Le parole fanno più male delle botte», ha lasciato scritto nel suo messaggio d’addio: è considerata la prima vittima italiana di cyberbullismo, e nel suo nome oggi è nata una fondazione per tenere accesa la luce su questi temi.

Nei mesi scorsi i ricercatori dell’Università Cattolica hanno chattato con alcuni adolescenti e giovani tra i 14 e i 21 anni che avevano pubblicato sui social commenti molto forti: qualcuno invitava a tirare bottiglie molotov contro un campo nomadi, qualcun altro incitava allo stupro verso coetanee. Una volta interpellati, la maggioranza dei ragazzi tendeva a minimizzare: «Mi state prendendo troppo sul serio, lo dicevo per scherzo», era la risposta più frequente. Secondo gli esperti, si è creata una sorta di «pedagogia popolare», un senso comune secondo cui quello che avviene online viene considerato meno importante di quello che accade nel mondo reale: in Rete si pensa di poter dire o scrivere ciò che si vuole, e si sottovaluta il peso delle parole. Un po’ alla volta, si arriva così «alla normalizzazione e all’accettazione sociale dell’odio esplicito», dice Stefano Pasta.

I dati presentati al convegno di Milano da Stefano Delfini, dirigente superiore della Polizia di Stato e direttore del Servizio Analisi criminale, mostrano come negli ultimi anni molti atti intimidatori si siano «trasferiti» dal mondo fisico alla Rete: con la pandemia, poi, sono stati presi di mira sempre più spesso medici, amministratori locali, giornalisti, tutte categorie molto esposte. Per esempio, nel 2019 erano stati 87 i casi di intimidazione verso operatori dell’informazione, e, di questi, 20 erano avvenuti online: nel 2020 il numero di minacce è cresciuto a 163, di cui 71 in Rete (+255 %) ed è ulteriormente aumentato nel 2021 con 232 atti gravi, di cui 163 attestati nel web (+129 %). Un trend simile si riscontra nelle intimidazioni verso sindaci, presidenti di Regioni, assessori e altri amministratori, con una quota significativa di minacce rivolte a donne. «Si sta passando dalle scritte sui muri alle scritte sulla Rete», ha commentato Delfini.

Siamo tutti «spettautori»

Come intervenire, allora, su questi fenomeni? Esiste una soluzione? Il dibattito è molto aperto. C’è chi sostiene che da parte degli Stati si dovrebbero attivare limitazioni e controlli alla Rete per evitare eccessi ed estremismi, ma questa posizione si scontra con la necessità di tutelare un diritto fondamentale: la libertà di parola e d’espressione (che negli Stati Uniti, per esempio, è garantita dal Primo Emendamento della Costituzione). E allo stesso modo – come si è detto – non si può «chiudere» la Rete, che ha certamente ampliato gli orizzonti della conoscenza e delle comunicazioni, solo perché c’è chi ne fa un uso sbagliato. A volte, tuttavia, il confine tra libertà d’espressione e reato è molto sottile, e viene oltrepassato o calpestato.

Allora, da più parti si richiede una maggiore responsabilità delle piattaforme su cui viaggiano anche i messaggi di odio, e qualche Paese ha pensato sanzioni per i provider che non adottano sistemi di autoregolamentazione (attraverso tecniche di intelligenza artificiale che riconoscano i contenuti più scabrosi): «Se è indubbio che la circolazione libera delle idee è un valore immenso da preservare, occorre però distinguere tra l’eventuale “censura” da operare sulla Rete e il problema della vigilanza sull’hate speech – precisa la professoressa Santerini –. A questa necessità non si può più opporre una pretesa immunità territoriale del web né i costi di un sistema di monitoraggio più rapido ed efficiente. L’odio rimane tale, e ciò che è punito offline lo deve essere anche online».

Al momento, dunque, la risposta più forte all’odio online, quella su cui si dovrà lavorare (e parecchio), resta quella educativa: una sfida. «Non si tratta di introdurre divieti, “Questo non si fa, questo non si può”, quanto piuttosto di educare al pensiero critico, alla valutazione e al prendere coscienza della responsabilità che ognuno di noi ha quando “abita” il web sociale», ricorda Stefano Pasta. In Rete, non siamo solo spettatori ma anche protagonisti, «spettautori», prosegue il docente. Nessuno può sentirsi escluso da questo richiamo. E per questo sono già nate varie iniziative di sensibilizzazione, come il progetto Parole O_Stili, «che vuole diffondere l’attitudine positiva a scegliere le parole con cura e la consapevolezza che le parole sono importanti».

Ma l’azione educativa deve diffondersi nelle scuole, nelle famiglie, nell’associazionismo. «Solo chi è stato vittima di un’aggressione verbale può sapere quanto possano far male parole di umiliazione, insulto, denigrazione», ha detto al convegno milanese Elisabetta Mancini, dirigente responsabile dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), incardinato nel Dipartimento della Pubblica Sicurezza. «C’è ancora molto da lavorare – fa eco il prefetto Vittorio Rizzi, vicedirettore generale della Pubblica Sicurezza e presidente dell’Oscad –, tenendo sempre ben presente che odio e discriminazione possono anche palesarsi nel mondo virtuale, ma le vittime sono sempre tragicamente reali».

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Data di aggiornamento: 10 Gennaio 2023

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