Martini, profeta della Chiesa che verrà
Ogni volta che si celebra un anniversario della morte di un grande maestro c’è il rischio di limitarsi all’agiografia. Un rischio che corriamo anche oggi, 10 anni dopo la scomparsa del cardinal Carlo Maria Martini, uomo di cambiamento, di dialogo, di profondo amore per il Vangelo. Per evitarlo, il modo migliore è partire dall’eredità di pensiero, di affetti, di spiritualità, cercando di leggere alla luce della sua esperienza umana e pastorale il mondo e la Chiesa di oggi. Non il passato quindi, ma il futuro. In questo modo il ricordo non è più una mera celebrazione, ma un esercizio per capire come far fruttare quell’eredità. A fare un’operazione di questo genere è Armando Matteo, teologo, saggista e da poco nominato da papa Francesco segretario per la sezione dottrinale del Dicastero per la dottrina della fede, in un libro che non a caso s’intitola La Chiesa che verrà. Riflessioni sull’ultima intervista di Carlo Maria Martini (San Paolo edizioni). Un percorso in salita, quello di don Armando, perché quell’intervista accorata, concessa al «Corriere della Sera» pochi giorni prima di morire, suscitò non pochi malumori in alcune aree della Chiesa.
Msa. Martini in quell’intervista dice che la Chiesa è in ritardo di 200 anni. Che cosa voleva dire?
Matteo. Dieci anni di distanza da quella frase e i molti studi accumulati su Martini ci permettono di chiarire meglio il suo pensiero. Il Cardinale nell’intervista parte da una premessa fondamentale: c’è stato un cambiamento antropologico straordinario e rapidissimo che ha portato l’Europa e gli Stati Uniti a diventare «le terre del benessere». In effetti, i nostri genitori e i nostri nonni abitavano in un altro pianeta, in quella che io chiamo «la valle di lacrime», dove si faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, si moriva per futili malattie, c’era un senso di rinuncia e sacrificio che rendeva la vita assai misera. Il benessere in cui viviamo oggi non è solo economico, ma ha a che fare con le opportunità, con l’abbattimento dei tabù, con la tecnologia. Un capovolgimento in appena due generazioni, che papa Francesco ben sintetizza nella frase: «Non siamo in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca». Ebbene, il cristianesimo di oggi è ancora quello elaborato secoli fa per gli abitanti della valle di lacrime. Quella di Martini è quindi una provocazione per dirci che è tempo per la Chiesa di elaborare una pastorale del tutto nuova, adatta agli abitanti delle terre del benessere.
Nell’intervista Martini afferma anche che la Chiesa all’esterno mostra abiti pomposi, ma nel suo intimo vive una sorta di svuotamento, di stanchezza.
Il problema è che una Chiesa ancorata al passato non è più in grado di fare cristiani, cosa che è di fatto la sua missione. Questo è il punto. Ciò perché non riesce a mettere in comunicazione il vero tesoro, che è il Vangelo, con le domande, le urgenze, le angosce, ma anche le conquiste, le possibilità, le opportunità degli uomini e delle donne di oggi. Questo è il vero vuoto. Oggi le famiglie ancora richiedono il catechismo e i sacramenti, ma il giorno dopo la cresima il credente evapora. C’è una frattura che bisogna ricomporre.
C’è chi teme che prendere atto di un tale svuotamento porti la Chiesa fuori strada.
Papa Francesco l’ha detto tante volte, per sgombrare il campo, che il punto non è il messaggio di Gesù, la sua rivelazione, il modo con cui Lui ci ha parlato di Dio. Il punto è come noi presentiamo questo messaggio per renderlo appetibile agli uomini e alle donne di oggi.
A proposito di papa Francesco, appare anche agli occhi dei non cristiani che proprio le sue istanze di cambiamento lo rendono il Papa meno compreso dai suoi. Perché?
Innanzitutto perché alcuni pensano che il cambiamento sia una forma di tradimento; poi perché si ha paura di perdere identità; il terzo motivo è un senso di forte risentimento, dal momento che il mondo non riconosce più alla Chiesa un’autorità sulle cose che contano. Tuttavia, se si analizza la storia del cristianesimo su una scala diacronica molto più ampia, si vede che esso è una religione che riscrive costantemente il senso della sua presenza nella storia. Un esempio eloquente di questa capacità di cambiamento pastorale della Chiesa nei tempi antichi è la decisione dei discepoli di usare nei vangeli il greco invece dell’aramaico, utilizzato storicamente da Gesù. Una scelta che è una rivoluzione e che ha concesso a un gran numero di persone di accedere alla Parola. La domanda che ci deve interrogare è un’altra: che tipo di Chiesa vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli? Una Chiesa del vuoto o una Chiesa che arriva al cuore delle nuove generazioni?
Tuttavia non è facile rendere desiderabile il Vangelo a chi vive nelle terre del benessere.
È vero. Bisogna prenderne atto e capire che la cosa non è risolvibile con qualche aggiustamento, tipo cambiare l’età della cresima o aggiungere un po’ di digitale al mondo dei preti. C’è bisogno di una «conversione della mentalità pastorale».
Che posto può avere la Chiesa in queste terre?
Lo storico Aldo Schiavone, per dare il senso del grande cambiamento antropologico in corso, usa una metafora illuminante: è come se a un bambino abituato ad andare in triciclo o in bicicletta si regalasse all’improvviso una Ferrari. È chiaro che è entusiasta, ma guidare una Ferrari è complicato e potenzialmente mortale. Allora il cristianesimo può essere quell’elemento che consente anche al cittadino del benessere di recuperare alcuni valori, evitando di delirare e di diventare succube di quello stesso benessere.
Martini come avrebbe messo in comunicazione gli abitanti delle terre del benessere con una Chiesa arroccata nel passato?
La caratteristica del magistero di Martini è l’intercessione, intesa come il gesto grazie al quale si fanno entrare in dialogo mondi che di per sé tenderebbero a restare in totale estraneità, mentre invece il loro incontro porterebbe a grandi benefici. Da questo incontro gli abitanti del benessere guadagnerebbero la consapevolezza e i valori per gestire le conquiste a loro disposizione, mentre la Chiesa si libererebbe dalla paura e dalla ripetitività sterile dei gesti per far nascere nuovi cristiani.
Quali sono i valori importanti che gli abitanti delle terre del benessere rischiano di perdere?
Bisogna fare una premessa. Uno dei soggetti più importanti della contemporaneità è il mercato, che meglio di altri ha colto la sostanziale impreparazione degli uomini e delle donne di oggi a gestire il «paradiso» che ci è piovuto addosso e la sfrutta per i propri interessi, nutrendo solo alcuni aspetti: l’individualismo, l’autoreferenzialità, a tratti quasi l’autismo del soggetto, perché diventi un consumatore sempre più dipendente. In questo contesto gli abitanti delle terre del benessere rischiano di perdere le condizioni per la loro vera realizzazione. Di fatto il benessere rende possibile la nostra autosufficienza materiale, ma l’umanità non può fiorire senza entrare in relazione con gli altri, né può farlo senza comprendere che il senso della vita è l’amore. Un altro elemento, infine, ha a che fare con la felicità, la quale non deriva mai dal solo possesso delle cose, ma dalla capacità di rendere felici gli altri.
Oggi sperimentiamo una sorta di «supermercato dell’esperienza» che mette sullo stesso piano religioni, identità, ideologie. Come cambiare, identificando la giusta rotta?
In effetti, la concorrenza al Vangelo oggi non viene tanto dalle altre religioni quanto dal potere economico che si presenta come un sistema profondamente religioso, con i suoi valori, la sua sacralità, i suoi comandamenti. Ed è molto efficace nel radicare le sue istanze nelle terre del benessere. Pensiamo al mito della giovinezza e della performance o alla necessità di trovare sempre il proprio godimento. Persino il potere politico è sottomesso a questa religione tanto che non sa più promuovere valori che trascendano l’economia. La rotta giusta è Cristo. Il cristianesimo che rinvia all’esempio, alla presenza, alle parole di Gesù può permettere agli abitanti delle terre del benessere di conquistare il mondo senza perdere l’anima. È questa una delle grandi eredità di Martini.
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