Resilienti si diventa

Mai come oggi se ne sente il bisogno a livello collettivo. Perché la resilienza aiuta a vivere bene, nonostante i traumi, i dolori, i lutti. A colloquio con lo psichiatra e psicoterapeuta Antonio D’Ambrosio, autore del volume «Educare alla resilienza».
17 Agosto 2022 | di

Resilienza è un termine tecnico, che indica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Da qualche anno la psicologia lo ha preso a prestito dalla metallurgia, per sottolineare la capacità di una persona di affrontare in modo positivo un evento traumatico, riuscendo, sostanzialmente, a non perdere la «rotta» della propria vita. E ora ecco la buona notizia: «La resilienza si può imparare; resilienti non si nasce ma si diventa». A dirlo è Antonio D’Ambrosio, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, nel suo ultimo libro Educare alla resilienza, edito da Franco Angeli, scritto in collaborazione con Beatrice Santeramo e Valeria Adiletta. Un testo da leggere tutto d’un fiato, attualissimo dopo gli eventi legati al covid e, ancor di più, con il sopraggiungere di quelli causati dalla guerra in Ucraina. Una lettura utile a «chiunque intenda riorganizzare la propria vita dopo un forte stress o a causa di un disagio socio-lavorativo che porta a una condizione di burnout. Per ritrovare se stessi, rialzarsi e superare un momento di difficoltà». D’Ambrosio, che attualmente insegna riabilitazione psichiatrica cognitivo-comportamentale presso l’Università degli Studi di Genova, è anche direttore del Cbt Clinic Center di Napoli, che ha provveduto a ridefinire uno dei due training presenti nel libro per sviluppare le competenze chiave della resilienza.

Msa. Professor D’Ambrosio, il suo libro è nato in piena pandemia per sostenere i professionisti dell’aiuto (operatori sanitari in primis) a superare i traumi e a resistere al burnout ma, a un certo punto, è divenuto di grande attualità anche per il contesto di guerra in cui è stato trascinato il mondo in questi mesi. È così?

D’Ambrosio. Questo libro è dedicato alla comprensione e allo sviluppo della resilienza, che è un costrutto complesso, costituito da capacità di riuscire a riorganizzare la propria esistenza dopo un evento traumatico; voglia di rialzarsi e ricominciare a vivere; forza che si riconosce in se stessi per vivere senza timori e senza abbattersi dinanzi alle avversità della vita. Mai come in questo periodo abbiamo assistito a un moltiplicarsi di eventi traumatici gravi. La pandemia ha rappresentato una continua e persistente fonte di stress. Per vari motivi. Penso all’assenza di avvertimenti che potevano favorire una preparazione e un preadattamento; all’impossibilità di disporre di cure specifiche; alle conseguenze incerte per la società; alla sensazione di continua precarietà per la propria salute; alla percezione di avere gli orizzonti della vita quotidiana limitati, a causa dell’impossibilità di viaggiare e interagire liberamente. Il personale sanitario, soprattutto, si è trovato a far fronte a uno scenario apocalittico negli ospedali, con un sovraccarico di lavoro e di decisioni sui propri simili, spesso particolarmente gravose, a cui si associava una sensazione di continua vulnerabilità personale. Infatti, proprio in questi operatori si è riscontrato un aumento dei fenomeni di burnout (esaurimento, ndr) lavoro-correlato.Negli ultimi mesi, quando si sentiva meno il peso della pandemia, siamo stati sommersi dalle immagini della guerra in Ucraina, con il vissuto traumatico delle vittime.

Perché si è giunti a parlare di resilienza in campo psicologico?

Di solito, nelle patologie psichiatriche non si riesce ancora a evidenziare con certezza una possibile causa. Il disturbo post traumatico da stress (PTSD), invece, può apparentemente rappresentare un’eccezione, poiché è individuata una causa precisa che lo ha determinato. Tuttavia, anche in questo caso non è così lineare il rapporto tra causa e manifestazione del disturbo: infatti, non tutti i soggetti che subiscono un trauma sono poi affetti da PTSD. Si è così compreso che, evidentemente, ci sono fattori di vulnerabilità o protettivi che contribuiscono o meno al suo manifestarsi. Per esempio, ci sono fattori genetici pre-morbosi, che confluiscono in stili di personalità e meccanismi comportamentali, cognitivi e affettivi che producono e mantengono il disturbo. Da queste evidenze sono derivati così diversi approcci di trattamento per il PTSD (ad esempio, terapie farmacologiche, esposizione prolungata ad ambienti contenenti spunti che ricordano alla vittima la propria esperienza, tecniche cognitivo-comportamentali). Questi servono a ridurre i vari sintomi presenti nel PTSD. Ed è qui che è importante anche evidenziare il ruolo della resilienza, che non è solo individuale ma è incorporata nei sistemi sociali. L’ambiente influenza la risposta a una situazione stressante-traumatica. Le risposte al trauma e ai fattori di stress significativi sono determinate da più sistemi dinamici a livello individuale e socio-ambientale (per esempio genetici, evolutivi, neurobiologici), integrati in sistemi sociali più ampi (per esempio, sistemi familiari, culturali, economici e politici ).

Quindi possiamo dire che resilienti si diventa e non si nasce?

Sì, esatto. La resilienza si può imparare, in quanto è un costrutto complesso di cui sono stati identificati diversi fattori: ottimismo, gratitudine, efficace capacità di soluzione dei problemi, capacità di dare significato e senso agli eventi, autoefficacia personale, flessibilità, buon umore, controllo degli impulsi, empatia, propensione ai rapporti affettivi, spiritualità. Ognuno di questi elementi può essere sviluppato e integrato nel proprio vissuto individuale.

Come ci si allena a essere resilienti?

Sviluppando tutti questi fattori con tecniche specifiche, che ho cercato di spiegare dettagliatamente nel libro. Esse possono essere facilmente applicate da un operatore sanitario su gruppi, ma anche dal singolo che può trarre beneficio dalla lettura del modo in cui i diversi fattori della resilienza vengono identificati e sviluppati. Appare centrale il ruolo della gratitudine, legato anche alla presenza di qualcuno che sempre ci aiuta in una situazione di crisi. Questo può essere l’operatore sanitario, il coniuge, la famiglia, un amico, gli educatori, gli «eroi culturali» presenti in certe strutture sociali e nella religione. Il riuscire ad aggrapparsi e a «trovare una mano tesa che offrirà una risorsa esterna, una relazione affettiva, un’istituzione sociale o culturale permetteranno all’individuo di salvarsi». (Boris Cyrulnik, 2000). È il cosiddetto «tutore di resilienza», al quale occorre manifestare riconoscenza per poi riuscire a «ricambiare» la disponibilità ricevuta, creando il circolo virtuoso di quella dimensione sociale che rende la comunità resiliente.

Nel volume, lei suggerisce due training, cioè due «allenamenti» per coltivare la resilienza.

Sì, il primo è un training psicoeducativo, che trae origine da un master per i militari statunitensi. Prevede tre fasi: la preparazione, il mantenimento, la valorizzazione. Sono illustrati i concetti di trauma, burnout, benessere, regolazione emozionale, risposta allo stress, componenti della resilienza: il tutto con esercizi specifici. Il secondo, ridefinito dal mio gruppo di ricerca del CBT Clinic Center di Napoli, prevede solo sei incontri per sviluppare le cosiddette competenze chiave. Queste sono: l’auto-consapevolezza, cioè l’identificare i propri pensieri, emozioni, comportamenti e modelli che sono controproducenti; l’autoregolamentazione, vale a dire la capacità di regolare impulsi, pensieri, emozioni e comportamenti per raggiungere gli obiettivi, come la volontà e la capacità di esprimere emozioni; l’ottimismo, che porta a divenire consapevoli in modo realistico della bontà presente in se stessi e negli altri, identificando ciò che è controllabile in modo da sfidare le credenze controproducenti; il pensare in modo flessibile e preciso, e la volontà di provare nuove strategie, il carattere, imparando a valorizzare i propri punti di forza, ma anche quelli del gruppo di appartenenza, con esercizi che consentono di raggiungere gli obiettivi e coltivare un approccio di forza nella propria unità; la capacità di sviluppare rapporti di reciprocità attraverso una comunicazione positiva ed efficace; l’empatia, la disponibilità, cioè, a chiedere aiuto e a offrire aiuto. Anche in questo caso, ogni incontro prevede la prescrizione di esercizi specifici, tutti dettagliati nel libro.

Se dovesse indicare una spia d’allarme per soggetti potenzialmente affetti da stress derivante da traumi, quale indicherebbe?

L’esaurimento legato all’essere emotivamente svuotato a causa di un contatto quotidiano con situazioni avverse nel luogo di lavoro; lo sviluppo di cinismo e atteggiamenti negativi verso i destinatari del lavoro; la sensazione di mancata realizzazione personale, che esprime la percezione di scarsa competenza e di prospettive di successo professionale. La difficoltà nell’allontanare da sé le immagini traumatiche e la difficoltà nel sonno con incubi.

Crede che il sistema sanitario pubblico stia facendo la sua parte fino in fondo nell’assistere coloro che hanno subito traumi e sono bisognosi di aiuto per superarli?

Il sistema sanitario è sottodimensionato quando si trova a far fronte a situazioni di crisi di dimensioni importanti, come quella che abbiamo vissuto. Attualmente ha fatto fronte a carenze strumentali e strutturali, ritengo che non è ancora maturata a sufficienza la logica dell’aiuto psicologico agli operatori e la prevenzione del burnout in ambito sanitario.

Che ruolo possono avere, secondo lei, le associazioni di volontariato, cattoliche e laiche, nell’aiutare i soggetti fragili della società in un momento storico così difficile per il combinato disposto covid-guerra?

La dimensione dell’intervento comunitario è fondamentale. Ma è anche vero che gli stessi attori del volontariato, i religiosi o altri operatori, possono trovarsi a loro volta in una situazione di burnout, soprattutto quando sono lasciati soli e non sono supportati essi stessi nei comportamenti resilienti. È importante instaurare relazioni significative e di supporto con altri individui della comunità (scuola, sport, lavoro, parrocchia, vicinato) o con altri adulti della comunità (insegnanti, allenatori, religiosi, ecc.); promuovere opportunità di attività pro-sociali; avere amici socialmente accettabili; promuovere un maggiore ed efficace inserimento scolastico/lavorativo.

È vero che sta pensando ora di scrivere un libro di favole per bambini?

Sì, mi piacerebbe adesso dedicarmi alle mie nipotine, Stellina, Livia e Lucrezia. Vorrei scrivere qualche cosa che segua la dinamica del sogno e della prospettiva ottimistica della vita. Ritengo, da credente, che ci attenda comunque un avvenire stupendo, siamo troppo schiavi di una dimensione temporale ridotta e chiusa in pseudo-valori deperibili. Mi piacerebbe che anche nella Chiesa si parlasse di più dei Novissimi e del futuro che ci attende. Sono molto grato a Chi ci ha donato questa speranza. 

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Data di aggiornamento: 18 Agosto 2022
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