Sistole e diastole
Sìstole e diastole. È con questi due movimenti difficili da pronunciare che funziona il cuore umano. Quello che chiamiamo «battito» non è altro che l’incrocio delle loro energie opposte, una che richiama il sangue venoso da tutto il corpo e l’altra che lo spinge riossigenato nelle arterie e nei vasi minori, fino alle estremità del sistema circolatorio. Fermare questo movimento significa fermare la possibilità della vita stessa e proprio per questo il cuore è un muscolo involontario: la sua natura lo protegge persino da noi, dalla nostra distrazione o volontà di fermarlo, perché la nostra sopravvivenza dipende dal fatto che gli organi che presiedono alle funzioni vitali – cuore, fegato, polmoni e reni – sono continuamente attraversati.
Per questa ragione, anche se poco poeticamente a scuola ci insegnano a pensare al cuore dal punto di vista meccanico, cioè come una pompa, sul piano simbolico esso è molto più vicino alla similitudine col confine, uno spazio di transito dove quello che entra e quello che esce si rimescolano generando la possibilità che la vita continui per entrambi. Quando a scuola ero io ad andarci, guardando la cartina dell’Europa e delle mille migrazioni che l’hanno costruita nei secoli, l’ho sempre immaginata così: come un cuore vivace e pulsante, continuamente attraversato da flussi di popoli che, varcando i confini, hanno reso la sua civiltà una delle più complesse e insieme coese che si possano osservare al mondo. Non è stato sempre facile; molte di queste mescolanze sono avvenute in modalità guerresca e le studiamo come invasioni, ma la maggioranza degli scambi nei secoli è stata pacifica e le persone si sono mosse per le più svariate ragioni: dalla necessità economica di trovare lavoro alle esigenze degli scambi commerciali, dalla fede dei pellegrini delle cattedrali alla curiosità di chi, ai primi del Novecento, ancora intraprendeva il Grand Tour per imparare il mondo.
È difficile credere che, davanti alla lezione tanto chiara impartita dalla storia, gli europei siano diventati ciechi e sordi al punto di cercare di fermare proprio quello che li ha resi ciò che sono: le sistole e le diastole dell’umanità attraverso i suoi confini, eppure è così. I muri e le Brexit, il filo spinato e i cani, la cittadinanza usata come limite e non come possibilità, i mitra spianati e i campi di respingimento sono tutte cose contrarie all’esperienza storica, ma, proprio come l’involontarietà del cuore, anche le persone possono essere fermate fino a un certo punto, prima che trovino comunque il modo di muoversi. Se sarà chiusa la strada più facile, prenderanno quella difficile e la faranno, anche soffrendo di più, mettendoci più tempo e persino accettando il rischio di morire lungo il tragitto.
È lungo queste vie alternative, dove la vita cerca di farsi strada a dispetto di tutto, che si incontrano persone come Nawal Soufi, che cercano di aiutare chi è fuori dai confini a vincere la paura di chi è dentro e provano a restituire all’Europa la sua natura di cuore pulsante. Nawal, classe 1987, è nata in Marocco ma è arrivata in Sicilia quando aveva un mese, crescendo italiana grazie a una migrazione. Interprete, mediatrice culturale e cooperatrice sociale, Nawal ha alle spalle anni di attivismo umanitario a cui devono la vita oltre ventimila persone tra Mediterraneo e rotta balcanica, ma gli organismi internazionali che hanno premiato il suo lavoro negli anni parlano addirittura di duecentomila, numeri da far impallidire qualunque lista di Schindler.
Nawal non ha dietro di sé alcuna organizzazione particolare, se non la generosità di chi la sostiene nel suo percorso di condivisione coi migranti respinti ai confini, eppure il suo numero di telefono è da anni il punto di riferimento di chi parte per venire in Europa, dalla Siria dove c’è la guerra al Nord Africa dove c’è la fame. Da quel cellulare negli anni ha raccolto richieste di aiuto che provenivano dai barconi al centro del Mediterraneo o dai campi di Lesbo, fino agli SOS provenienti dalla rotta balcanica, che oggi rappresenta l’ultima speranza per coloro che, prima di intraprendere la via della neve con i loro bambini, hanno provato a salvarsi in Europa attraverso strade meno rischiose.
Nawal fa cose che sono allo stesso tempo semplici e fondamentali: richiama le istituzioni al dovere di salvataggio, documenta abusi e violazioni del diritto umanitario, porta aiuti di ogni genere, dal cibo agli assorbenti, e soprattutto condivide ormai il percorso durissimo dei migranti, accompagnandoli lungo la linea di confine più aspra, quella con l’Est Europa che affaccia sull’Adriatico. Negli anni è diventata bersaglio dell’odio ideologico di chi la considera una collaboratrice dei trafficanti di esseri umani e ha misurato sulla pelle anche l’ipocrisia delle istituzioni europee, che l’hanno ripetutamente premiata per il suo volontariato, ma che continuano a non voler aprire i corridoi umanitari che lo renderebbero più facile e persino superfluo. Se le fanno la domanda provocatoria «Chi ti paga?», è facile che risponda come ha fatto molte volte: «Mi paga il cuore». Sistole e diastole. La vita comincia da lì.
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