Matti per il calcio
Sono quelli che vivono perennemente in «fuorigioco», pensano di giocare, ma ogni volta che arriva loro la palla la partita si interrompe. «Alla fine i compagni non gliela passano più, gli avversari non li considerano e si ritrovano isolati. Danno la colpa all’arbitro, alla società, ai medici, ai genitori… Il calcio è una perfetta metafora della vita e i malati psichiatrici sono quelli che rischiano di ritrovarsi in fuorigioco, isolati». A parlare è Santo Rullo, presidente della Società italiana di psichiatria sociale (Sips). Unendo professionalità e passione (è psichiatra e «malato di calcio»), questo medico ha realizzato un sogno che potrebbe aiutare tante persone. Lo scorso febbraio, infatti, ha portato in Giappone, ai Mondiali di calcio a cinque per disabili mentali, la squadra italiana di pazienti psichiatrici. Ha coinvolto Enrico Zanchini, ex giocatore professionista, come allenatore, e Vincenzo Cantatore, ex campione di boxe, come preparatore atletico.
Convinto che «una cosa così folle doveva diventare un’esperienza per tutti», ha contattato Volfango De Biasi, regista con una spiccata sensibilità sociale, che nel 2004, con Francesco Trento, aveva diretto e prodotto Matti per il calcio, un piccolo documentario sui malati psichiatrici e il calcio. È nato così, dodici anni dopo, il docufilm Crazy for football, prodotto da Skydancers con Rai Cinema e Istituto Luce Cinecittà, che lo scorso ottobre è stato presentato alla Festa del cinema di Roma. Il film sarà nelle sale a febbraio. La speranza di Rullo e degli attori di quest’avventura è che presto arrivi in Rai, «in prima serata, perché è un film che tutti dovrebbero vedere». O che, venduto a Sky, venga «messo tra le chicche calcistiche: la nostra idea è stare nello sport non nel sociale». I protagonisti del documentario, infatti, «sono i ragazzi e l’allenatore, non la sofferenza. L’idea che vogliamo far passare è che il calcio, lo sport, è un diritto di tutti».
La terapia del pallone
Oggi sono molte migliaia le squadre di pazienti psichiatrici nei cinque continenti e il Giappone è all’avanguardia con seicento squadre, quasi tutte finanziate da società sportive di serie A. «Circa quarant’anni fa abbiamo chiuso i manicomi – spiega Santo Rullo –. Oggi la malattia mentale ha ripreso la sua dignità di malattia, ma rimane aperta una battaglia fondamentale: reinserire le persone con disagio mentale in un tessuto sociale che tende a isolarle e stigmatizzarle». Le cure più appropriate sono quelle che «integrano interventi biologici, farmacologici, psicologici e sociali. E quale attività integra questi vari piani meglio dello sport di squadra?».
La «scintilla» (pensare non solo alla testa, ma anche al corpo) a Rullo si accende venticinque anni fa. «Avevo appena vinto il concorso pubblico. Arrivo in un servizio di salute mentale, dove vedo persone ferme e piene di farmaci sedute sulle panchine. Quando qualcuno gettava un pallone comunque si alzavano…». E una cinquantina di persone, a gennaio 2016, si sono alzate e hanno viaggiato da tutt’Italia verso Roma, accompagnate da operatori e familiari, per partecipare alle selezioni ufficiali della nazionale italiana di malati psichiatrici. «Non volevamo mettere su una “bella squadra”, ma una realtà rappresentativa delle diverse situazioni cliniche, delle realtà geografiche e delle varie fasce di età, in modo che tutte le famiglie che hanno un paziente in casa capissero che c’è una speranza».
Due giorni di selezioni, poi una settimana di allenamenti con Zanchini e vari incontri con il preparatore atletico. «Alla fine è avvenuto il “miracolo”. Grazie alla disponibilità e alla voglia di imparare, siamo diventati una vera e propria squadra» dice Zanchini. Riconoscibili nel gioco, con una loro identità di team, i giocatori hanno interiorizzato quei quattro o cinque elementi tattici fondamentali per il calcio a cinque. Un tipo di gioco assolutamente «terapeutico» per chi è portato a isolarsi o a vagare nel mondo dei sogni, perché chiede grande concentrazione e responsabilità da parte del giocatore.
Ripensando a tutta la vicenda, a posteriori, l’allenatore – che sin dal primo momento ha chiarito: «Non mi interessano le storie che hanno alle spalle, li tratto come giocatori» – sottolinea l’ammirazione che prova per i suoi atleti: «Hanno una capacità di mettersi in discussione e una consapevolezza dei loro sbagli proprio per le storie da cui provengono. Stando con loro ho capito quanto sia labile il confine con la cosiddetta normalità. E poi ammiro il fatto che abbiano scelto di “metterci la faccia”. Si sono messi a nudo di fronte alla macchina da presa, ai giornalisti, al pubblico». Al grido di «Branca, Branca, Branca» la squadra partecipa, si diverte, si emoziona. E gli spettatori con loro.
Passione e disciplina
Sul sito Facebook di Crazy for football, in un bel servizio realizzato da Le Iene, i giocatori raccontano le loro storie e spiegano il senso di questa avventura. «Gioco da quando ero bambino, ma per i miei problemi non ho mai fatto calcio. Prima facevo tante cose con il pallone, ma era una gioia che vivevo da solo, se la vivi con gli altri è definitiva» dice Cristian. Nello spot che Francesco Totti ha girato per promuovere la visione del film, è lui il giovane freestyler che fa magie col pallone. «Sono stato in polizia dall’82 all’88 – continua Sandro –, ho anche fatto la scorta a Cossiga, poi ho cominciato a soffrire di esaurimento. Sentivo le voci, sdoppiavo la realtà. Forse ho tirato fuori le mie debolezze. Il calcio è stato importante all’ottanta per cento: mi ha aiutato ad avere una disciplina, a mettermi in relazione con gli altri».
Secondo Zanchini è Sandro il vero «uomo spogliatoio» per la sua nobiltà d’animo: «Desiderava giocare, come tutti gli altri. Ma quando gli ho chiesto di entrare, durante una partita del mondiale, Sandrone mi ha risposto: “No, mister, stanno giocando troppo bene, lasciali continuare”». E poi c’è Enrico, che ha fatto parte delle giovanili della Reggiana: «Il calcio mi ha aiutato a tornare in gruppo, a metabolizzare i miei problemi».
E Ruben, il capitano della nazionale: «Non si sa perché la gente ci definisce “matti”. Ognuno ha la sua storia, storie difficili. Per problemi in famiglia ho avuto una depressione, ho mollato il calcio, non ho finito la scuola, ho perso i contatti con gli amici, mi sono chiuso in casa. Adesso lavoro, sto cercando di uscire di più. La nazionale mi ha aiutato moltissimo, mi diverto a giocare». Silvio, invece, è stato vittima di bullismo alle scuole superiori: «Lo sport unito al farmaco ti aiuta, l’obiettivo di vincere una partita mi fa sentire forte dentro». Il calcio, dice Santo Rullo, ha questa forza rigeneratrice perché «è uno sport e un gioco e ha tutti i valori di entrambi. Non è solo la regola che mi obbliga, ma la regola che mi fa accedere alle mie risorse e al mio divertimento».
«All’inizio mi dava fastidio se mi chiamavano matto, per me è un po’ un tabù» dice Stefano, un altro membro della squadra. Ma dopo il mondiale «ci metto la faccia. Ho provato a suicidarmi, più volte, ci ero quasi riuscito, mi hanno salvato per un pelo. Adesso dico: “Meno male!”. Ho capito che bisogna vivere! Ho 28 anni, lavoro in una cooperativa sociale, aiuto ragazzi disabili e spero in un grande amore».
Il gruppo di protagonisti di Crazy for football è stato applaudito alla Festa del cinema di Roma da un pubblico formato da tanti vip dello sport e attori professionisti che hanno poi prestato il loro volto negli spot di promozione (da Carlo Verdone a Nino Frassica e Paolo Ruffini). La prossima tappa sarà un torneo europeo, a maggio, a Lecce, per le qualificazioni ai mondiali del 2018, che si terranno in Italia. Per quell’occasione Rullo spera in un sostegno forte e convinto da parte della FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio), del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) e dello stesso ministero dello Sport, che «questa cosa dovrebbero farla propria, assumerla in prima persona».
E ritorna alla metafora del gioco: «Mentre la società ha tutto l’interesse ad “alzare la difesa”, come direbbe un allenatore di calcio, per tenere più persone possibili in fuorigioco, così non ce ne curiamo, l’operazione di inclusione sociale dovrebbe essere il contrario, far rientrare queste persone e farle giocare. Perché solo giocando uno si rende conto della proprie risorse».