Migranti, altari di fiducia
«Mi sento come di fronte a un altare, in un clima quasi sacro, mentre guardo questo sconosciuto che si fida di me, mi fa il dono di porgermi il suo corpo e di lasciarsi curare. Questo mi evoca quel rapporto primario che c’è all’inizio della vita. Quando un bimbo nasce, tu lo tocchi, restituendogli così la sensazione che esiste. Il mio toccare è quindi anche il mio riconoscerti come essere umano». Lorena Fornasir, psicologa clinica e psicoterapeuta, è ormai diventata un simbolo di quella che lei definisce la «cura dei corpi disumanizzati». Assieme al marito, Gian Andrea Franchi, insegnante di Filosofia, ora entrambi pensionati, ogni giorno, pioggia, neve, vento, dalle 17 anche fino a mezzanotte, sono in piazza della Libertà, davanti alla stazione ferroviaria di Trieste, ad assistere i migranti che arrivano dalla rotta balcanica: Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Bosnia, Croazia, Slovenia, fino ad arrivare in Italia, Austria, e su verso il Nord Europa. È considerata la prima rotta migratoria di ingresso in Europa, con un aumento nel 2022 dei transiti registrati del 170% rispetto al 2021. Sono per lo più afghani, ma anche pakistani, che scappano da un Paese totalmente inospitale, dove fortissime alluvioni si alternano a lunghi periodi di siccità, e poi curdi, turchi, iraniani, bangladesi. Arrivano in Italia dopo aver camminato per mesi e, in alcuni casi, anche per anni. La maggior parte sono minori, alcuni maggiorenni, il 50% è sotto i 25 anni. Sono stremati, affamati, disidratati, impauriti, feriti nel corpo e nell’anima.
Per questo suo impegno, Lorena ha pagato un duro prezzo. «Ero giudice onorario presso il Tribunale dei minorenni di Trieste, quando io e Gian Andrea siamo stati denunciati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver ospitato una famiglia curda. La denuncia poi è stata archiviata, ma io non ho più potuto svolgere quell’attività che amavo tantissimo. Per evitare altri problemi, abbiamo poi fondato l’associazione “Linea d’Ombra”».
A compensare un po’ il dolore, è arrivato, il 30 marzo scorso, il premio «Donne straordinarie», ideato e organizzato dall’Associazione Montessori Brescia, per celebrare donne che si sono distinte nella difesa dei diritti umani. «In realtà non mi considero affatto straordinaria – dice Fornasir –, anzi, sono molto imbarazzata per essere stata definita tale, ma ho accettato volentieri questo premio quale ulteriore occasione per far conoscere quello che succede ai nostri confini. Questo premio per me è un premio alla solidarietà. E la solidarietà è un miracolo». Dal 2015, quando i coniugi Franchi sono scesi in piazza, prima a Pordenone, poi a Trieste, la sensibilità è molto cresciuta. «All’inizio eravamo pochi – racconta la psicologa –. Poi la voce si è sparsa. Oggi arrivano persone da tutte le città d’Italia, chi porta cibo, chi calzini, giacconi, cappelli, oggetti nuovi, belli, che indicano che esiste un altro tipo di società».
Msa. Piazza della Libertà oggi è la piazza del mondo?
Fornasir. Certo. Proprio per il caleidoscopio di etnie che vi convergono. La piazza è magica, è stupenda, da non luogo che era è diventata un luogo di socialità, dove le persone vengono per stare insieme. Gli scout portano gli strumenti per suonare e ballare, e i palloni. Un pallone qui è come una «granata» di gioia. I migranti arrivano pieni di ferite, ma con una gran voglia di vivere, che è contagiosa. Ti regalano dei sorrisi magnifici, per cui la piazza vive il dolore, ma è un dolore che convive con l’incanto.
Tu e Gian Andrea siete stati ventotto volte in Bosnia, per capire meglio la situazione. Quale inferno attraversano questi ragazzi?
Kosovo, Croazia, Grecia, Bulgaria applicano la strategia del terrore. Ci sono ragazzi che sono stati imprigionati per mesi, torturati: arrivano con le ossa spezzate, con lesioni, cicatrici importanti. Non parliamo, poi, dei piedi, pieni di vesciche e di piaghe per aver percorso migliaia di chilometri con scarpe inadatte, attraverso un territorio impervio, con alture vertiginose e precipizi. A volte chiedo: «Come hai fatto ad arrivare fin qui?». La risposta è un’altra domanda: «Avevo altra scelta?». Tentano e ritentano, venti, trenta, cinquanta volte ad attraversare le frontiere. Lo chiamano game, ma non è un gioco: fallire può voler dire anche morire.
Qual è la risposta della politica?
Un controllo sempre più serrato. Per un anno ci sono stati respingimenti senza motivazione. Poi sono stati bloccati grazie al ricorso presentato dall’avvocata triestina Caterina Bove, che il Tribunale di Roma ha convalidato. Nonostante questo, sembra che siano ripresi. È una politica di morte.
Lorena, tu e tuo marito condividete gli stessi ideali. La piazza vi ha unito ancora di più?
Io e mio marito siamo sempre stati una coppia unita. Questa esperienza è molto arricchente per entrambi, perché ci mette costantemente in contatto con noi stessi, con i nostri limiti, e anche con il filo sottile che divide la vita dalla morte e che conosciamo attraverso i racconti di dolore dei ragazzi. Noi consideriamo la nostra attività un gesto politico, che per noi significa occuparsi del bene dell’altro.
Si piange qualche volta?
Mi è successo di recente con un omone gigante, arrivato nella piazza. Così grande e grosso che, se lo incontri per strada, magari ti fa paura. Ho cominciato a curarlo, a toccare i suoi piedi pieni di vesciche; a un certo punto i nostri sguardi si sono incrociati, gli è uscita spontaneamente la parola mamma e gli sono scese le lacrime. Mi sono alzata e l’ho abbracciato. Abbiamo pianto insieme. Lo avevano derubato di tutto, non aveva più nulla. Mi ha detto che non pensava di trovare qualcuno che gli potesse fare del bene. Sono storie così generative che quasi non puoi più farne a meno.
Che cosa ne pensi del naufragio di Cutro, in Calabria?
Si tratta di un crimine di Stato. Era una tragedia evitabile, come tante altre. Ogni volta si dice che sarà l’ultima, che non accadrà mai più, ogni volta ci si commuove davanti alla morte di un bambino, lo zainetto, l’orsacchiotto e, dopo, tutto ricomincia uguale. La politica si disinteressa della vita, rispetta solo le armi e il profitto.
Il vostro è un impegno gravoso: vi stancate mai?
Fisicamente sì, io ho 70 anni, e mio marito 87, ma la piazza ha qualcosa anche di terapeutico. Mi capita di stare per ore senza mangiare, senza bere, ma torno a casa felice. Da quando, nel 2015, abbiamo visto i primi ragazzi con i morsi dei cani sulle gambe, non abbiamo più potuto tornare a rinchiuderci, come dice Primo Levi, «nelle nostre comode case», ignorando questa realtà.
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