Misericordia in 3D
Una «Misericordia graziosa, spaziosa, preziosa». Par di vedere le dimensioni del Cristo Pantocrator che riempie il catino absidale del duomo di Monreale; quel volto sereno e severo, volto misericordioso di Dio, bello, intenso, largo e profondo da naufragarci dentro.
Era lì da almeno una cinquantina d’anni prima che sant’Antonio approdasse fortunosamente in Sicilia; questi, molto probabilmente, non poté venerarlo come pochi anni prima invece san Francesco aveva fatto con il Crocifisso di San Damiano, ma forse respirò davvero quell’aria «graziosa spaziosa e preziosa» trasmessa da quel volto e riflessa da quella terra solare e profumata che lo aveva accolto non da straniero.
La respirò nel soccorso che, sulla spiaggia e nelle grotte di capo Milazzo, gli prestarono i pescatori insieme a qualche «volontario del mare» di quel tempo, per i quali non era affatto una sorpresa tirare a riva esseri umani in pericolo di vita.
Si sentì avvolto nella misericordia quando i confratelli del piccolo convento di Messina lo accolsero condividendo con lui il povero pane della questua, contenti poi di accompagnarlo fino ad Assisi per fargli conoscere san Francesco e tutta la sua variegata compagnia riunita a capitolo.
Una bella tradizione messinese ricorda come il nostro Santo, grato per l’ospitalità ricevuta, intercedette per un pozzo d’acqua buona di cui i frati avevano bisogno.
E, probabilmente, fu proprio per la Sicilia che Antonio «spese» il suo primo miracolo. «Ma perché non è rimasto tra noi il fraticello naufrago, frate Antonio da Lisbona, invece che risalire l’Italia?» è la domanda semiseria che sfugge all’amico professor La Cara di Siracusa.
«Qui avrebbe trovato il terreno buono per la sua predicazione, qui eretici con i quali “lottare” non ce n’erano un granché e anche l’attrito con la cultura araba non era poi così duro, qui sole e mare gli avrebbero assicurato lunga vita!» continua il mio amico professore.
La Sicilia, in qualche suo lato più a sud di Tunisi, è per lo più una porta di transito a cui si arriva e da cui si riparte, giusto il tempo per capire che si è trovata ancora umanità e si è sicuri che non si sarà respinti ma accolti, e accolti pure con intenzione, come se ogni nuovo arrivato fosse un dono e non un pericolo.
Senza arrivi non ci sarebbero i templi della Magna Grecia, la Cappella Palatina, e, appunto, quel Cristo «grande» di Monreale, insieme a tutto il fecondissimo incontro di infinite biografie, come quella dello stesso sant’Antonio.
«Il siciliano ama la conoscenza – continua il mio amico –, e l’accoglienza ne è il tramite primo: è il piacere di sapere chi sei, conoscere la tua storia, che cosa hai da raccontare, che cosa è avvenuto nella tua vita, che sogni hai».
Come dire che, senza nuove narrazioni, ci si «annoia». Concetti un po’ impegnativi anche per me, e devo molto a questo amico siracusano, e mi sento un po’ di colpa per tutti i suoi inviti disattesi perché «occupato» al Nord, sempre un po’ diffidente verso le culture «calde» in cui l’incontro «con il cuore» non avviene solo a Natale.
Noi che confondiamo ancora «porti aperti» con «dentro tutti», i salvataggi di vite umane con «concorso in invasione» e ci chiediamo, interdetti e un po’ imbronciati, come e perché la misericordia del Padre debba essere «graziosa, spaziosa, preziosa» anche con chi non stavamo per niente aspettando.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!