NoWalls: voglia di bene
«Il talento è l’avere voglia. Lo diceva Jacques Brel, uno che aveva un gran senso dell’umorismo, e io sono d’accordo». Se Brel aveva ragione, Marta Dore è certo donna di grande talento. Giornalista e studiosa di antropologia, ha la linea della vita che appoggia quasi sui 50 anni, un tempo che al magazzino dei luoghi comuni del linguaggio sarebbe catalogato sbrigativamente alla voce mezza età.
Dei luoghi comuni però Marta non sa tanto cosa farsene e forse anche per questo la sua mezza età somiglia più a un inizio che a un declino. Bionda da così tanto tempo che non sembra sia stata mai altro, timida, milanese per nascita e poi per scelta, questa signora dagli occhi chiari è abituata a stare tra tensioni opposte e a reinventarsi ogni giorno, un’elasticità utile in molti frangenti, ma indispensabile se sei madre. Di figli Marta ne ha tre, tutti maschi, e la loro differenza d’età – 19, 16 e 9 anni – le ha permesso di trovarsi in una posizione di equilibrio tra il già espresso dal percorso del primogenito, universitario fuori sede, e il non ancora degli altri due, saldamente ancorati a casa. Avere figli è una macchina del tempo ed è una scuola di profezia, perché ti costringe a immaginare molto più futuro di quello che puoi pensare solo per te stessa. Il mondo che hai trovato e quello che hai abitato ti preoccupano meno di quello in cui cresceranno loro e questa preoccupazione può assumere molte forme.
Lo slogan di NoWalls è «prima l’italiano», un gioco di parole un po’ polemico con chi grida «prima gli italiani», per mettere in guerra tra loro i poveri nati qui e quelli nati altrove. Prima l’italiano, per Marta e il team di cui fa parte – quasi interamente composto da donne –, ha significato attivare per tutta Milano esperienze di scuole di alfabetizzazione di base per rifugiati. È un gesto più rivoluzionario di quanto non appaia: da un lato offre ai migranti uno strumento di emancipazione e smonta le accuse di chi dice «non possono integrarsi, non parlano nemmeno la nostra lingua», dall’altro però alimenta la vera paura che si nasconde dietro questa obiezione: che la nostra lingua i migranti la imparino davvero e decidano che il Paese che la parla può diventare il loro.
Il principio di NoWalls è proprio questo. «È importante, fondamentale, gettare una rete sana intorno al migrante che arriva in Italia e che spesso è solo e disorientato. Attraverso la rete si possono tessere i percorsi concreti di una nuova vita che può e deve essere utile a loro, ma anche alla società in cui sono stati accolti».
Le scuole di NoWalls oggi sono dieci in tutta Milano e intorno a loro si progetta inclusione anche attraverso lo sport, la musica, l’avviamento al lavoro, gli scambi culturali e lo stare insieme, con una grande attenzione alle questioni di genere e all’ecologia. Condividere le differenze in un percorso di accoglienza pacifico fino a pochi anni fa sembrava la cosa più sensata da fare, la più vicina a un’idea di umanità solidale e non conflittuale, ma nel frattempo è cambiato qualcosa: quella visione di multiculturalismo sembra oggi diventata la meno popolare di tutte. «Abbiamo ricevuto sui social network molti commenti sprezzanti e insulti che riprendono i discorsi politici di chi indica nello straniero il male del Paese. Li abbiamo lasciati perché si capisca in che clima stiamo vivendo».
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