Passa il Giro…
Quando si parla di ciclismo, il primo pensiero che passa per la mente sono i ricordi in bianco e nero di Coppi e Bartali. Il secondo è il Giro d’Italia, l’affascinante corsa a tappe che nella sua storia ci ha fatto conoscere le bellezze del nostro Paese. Per interminabili giorni i corridori pedalano piegati sulle loro biciclette, concentrati nell’immane sforzo – spesso disumano – di questo meraviglioso sport. Ragazzi ricchi di entusiasmo disposti ad affrontare la fatica pigiando instancabilmente sui pedali, con devozione. Ognuno di loro vuole raggiungere il traguardo per primo, davanti a tutti. Un giro di pedale, poi un altro ancora, mentre dal ciglio della strada migliaia di appassionati attendono il loro passaggio. Esplodono applausi infiniti al via vai dei «girini», i tifosi accompagnano spiritualmente le biciclette oltre la sfumatura di un orizzonte nascosto, troppe volte irraggiungibile ai comuni mortali. All’ombra di un pioppo per proteggersi dal sole cocente, sotto un ombrello per ripararsi dalla pioggia, intere famiglie e gruppi di amici ingannano il tempo con merende e buon vino portati da casa. Il tempo passa tiranno senza urla da stadio, qua e là bandierine colorate sventolano accompagnando la romantica favola dell’attesa.
La «Corsa Rosa» percorre il nostro Stivale accompagnata dallo stridio dei silenzi, risale la penisola facendosi inghiottire da giochi altimetrici fatti di salite che tolgono il fiato. Dal caldo soffocante delle isole del meridione, dove le borracce riempite di acqua fresca durano solo qualche sorso, al freddo pungente delle Alpi che invoglia a scaldare lo stomaco con bevande calde e obbliga i corridori a coprirsi con maglie pesanti per evitare di congelarsi, ci si muove in una salita psicologica senza fine. Mentre il sudore della fronte scivola e annacqua la pipa del manubrio con gocce grandi come un nichelino, la competizione entra nel vivo. Nel gruppo si respira aria di epicità, in sella la vista si annebbia, mentre il gruppo perde i suoi primi pezzi. Il paesaggio resta immobile al passaggio dei corridori, l’attrito ostile scioglie i «Viva Gibo» e gli «Abbasso gli altri» con la semplice carezza di un palmer che rotola sull’asfalto ruvido. Nessuno vuole lasciare il segno di un passaggio. Si fugge via da un anonimo luogo che, incontaminato, ritorna al suo stato primordiale.
Sfrecciano le biciclette, girano senza far rumore le sottili ruote. I raggi cromati brillano creando giochi di luce e bagliori che durano l’istante di uno sguardo. È uno spettacolo senza tempo questo del Giro, è come se non esistesse. Nella mente non rimane il colore delle divise o il volto di un corridore nascosto dalla sagoma del casco. I «girini» sanno scomparire nel nulla del vento, lasciando solamente il ricordo di un soffio. Passano i corridori: la maglia blu del leader dell’intergiro, la casacca ciclamino di chi ha vinto più sprint, la «giubba» verde sulle spalle di un esile grimpeur, la candida maglietta bianca dello «sbarbato» più bravo del gruppo. C’è anche il «vestito» rosa del «re della corsa», il più forte di tutti, il primo della classifica generale. Nel ciclismo epico di un tempo c’era pure la maglia nera, la indossava l’ultimo corridore della classifica generale. Era quasi sempre «il cinese» ad indossarla. Luigi Malabrocca era un maestro a chiudere il gruppo.
Tra braccia fatte di nervi inumidite dal sudore e gambe spazzolate dal succo di un limone per alleviare l’atroce dolore dei crampi, riecheggia l’amarcord delle pedalate andate. Una nostalgia d’altri tempi radicata nel cuore di chi non è mai stato in sella. «Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste: il suo nome è Fausto Coppi»: chi non conosce le parole di questa famosissima radiocronaca di Mario Ferretti deve avere l’umiltà di alzare la mano. Era il 1949, l’Airone di Castellania volava in perfetta solitudine verso Pinerolo in un’impresa che sarebbe entrata nella storia del ciclismo. «Ginettaccio», dopo aver forato tre gomme e aver perso molti minuti per l’entusiasmo dei tifosi, raggiunse il traguardo di tappa con un ritardo di oltre undici minuti. Fausto era sempre più in rosa, irraggiungibile anche dagli dei.
Sono tanti i grandi campioni che hanno pedalato e si sono sfidati sulle strade del Giro: Gimondi, Merckx, Saronni, Moser, Indurain, Fignon, Hinault, Chiappucci. Molti altri sono stati dimenticati da un passato ormai troppo lontano, ma esistono. Eccome se esistono. Ognuno di loro ha lasciato un segno, un ricordo indelebile. Le cronache sportive – quelle che parlavano di gregari – riportano a bravissimi professionisti del pedale che sfortunatamente non hanno mai brillato, ma hanno saputo ugualmente donare spettacolo e grandi emozioni. Axel Merckx, il figlio del «cannibale», è uno di questi. Una storia custodita in uno «strappo», nell’ultima impennata verso l’olimpo della decima tappa del Giro d’Italia del 2006: la Termoli-Peschici. Una frazione dura fatta di saliscendi «spezzafiato», 190 chilometri con un finale tra case bianche in contrasto col Mar Adriatico. Una salita insignificante, facile, ma senza fine quando le gambe vanno in debito di energia e tendono a piegarsi. Sotto il triangolo rosso dell’ultimo chilometro, Axel era in testa con un vantaggio abbastanza consolidato, ma dietro di lui, qualcuno stava cambiando le carte di un poker in burrasca.
Quando i giochi sembravano ormai alla fine, un gruppetto di corridori indemoniati scatenò la caccia all’uomo in fuga. Dall’illusorio specchietto retrovisore di Axel Merckx il plotone prendeva sempre più forma, le maglie dei capitani assumevano ruoli bizzarri e incontrollabili. Arrancava sui pedali Merckx junior, la benzina stava per finire. Contrariamente al babbo – che non si voltava mai – Axel non riusciva a darsi pace. Lo sguardo si perdeva perennemente nella strada lasciata dietro di sé. Mancavano poco più di cento metri allo striscione d’arrivo, il dramma annunciato prendeva sempre più forma. La tragicità della passione sportiva del corridore si stava sgretolando sotto lo spietato ticchettio di un cronometro. Il sogno quasi compiuto era destinato a naufragare al di là di una transenna che divideva dall’altro mondo. Il buon Franco Pellizotti, lanciato a velocità supersonica, superava e demoliva il giovane corridore fiammingo per andare a vincere la tappa a braccia alzate. Il miraggio di Axel aveva raggiunto il suo apice, il mondo stava per crollare nella sua vita. Il dipinto rappresentativo della sconfitta prendeva indelebilmente forma nella trama del suo volto.
L’atleta, che fino a qualche istante prima faceva parte della sua personale identità, si frantumava innanzi alla natura contrapposta all’uomo. La crudeltà di una commedia non scritta esplodeva in un pianto disperato che riconduceva all’eroica epopea di Franco Bitossi ai campionati mondiali di Gap nel 1972, quando fu superato e battuto da Marino Basso a pochi metri dalla linea del traguardo. Axel, piegato sul manubrio sotto il cielo senza nuvole di Peschici, provava a proteggersi dai flash dei fotografi, come il babbo Eddy nel letto di una camera d’albergo di Albisola Superiore nel lontano 1969, quando fu escluso dal Giro per sostanze sospette ritrovate nel suo sangue. Il ciclismo è così: oggi ricevi un regalo e ci sei. Domani arriva la crisi, perdi le ruote, ti stacchi e piangi lacrime dure come diamanti.
Un tempo le fotografie dei campioni del pedale si potevano vedere solo sulla Gazzetta dello Sport. Immagini in bianco e nero capaci di emozionare e dividere le tifoserie. Istantanee dai toni seppiati, suggestioni e frammenti di vita sportiva capaci di unire un popolo appena uscito da una guerra. Vi è sempre una certa nostalgia quando si riguardano le vecchie fotografie scattate durante il Giro d’Italia: Vincenzo Torriani perennemente in piedi sulla decappottabile a dirigere la corsa, il serpentone dei ciclisti alzati sui pedali per contrapporsi alla pendenza dei ripidi tornanti del Passo dello Stelvio sotto una fitta nevicata, i gregari col tubolare intrecciato sulle spalle e la borraccia ancorata sul manubrio. Quei volti antichi ricoperti di polvere trasudano ancora fatica. La si percepisce. Si sente. Eppure, per chi ha vissuto quei «Giri» è come se qualcosa di misterioso sia rimasto celato nei pozzetti delle Rolleiflex, quelle grandi fotocamere dove si guardava nel mirino dall’alto, chinando la testa verso il basso senza mai guardare il sole negli occhi.
Si sale verso le nuvole nell’ultima settimana della «Corsa Rosa», iniziano le salite. Quelle vere. Quelle strade ripide che fanno boccheggiare e mettono a dura prova i polmoni. Il Pordoi, le Tre Cime di Lavaredo, il Falzarego, il Colle dell’Agnello, il Sestriere. È arrivato il «pane» per gli scalatori, pronti a «smanettare» sul cambio in cerca del giusto rapporto, per avvicinarsi al cielo imbronciato e provare a scomparire dietro l’ultimo tornante. Su queste interminabili salite che si inerpicano su maestose montagne dalle cime innevate, i velocisti arrancano, si staccano dal gruppo. Mettono nella bisaccia le energie, si risparmiano per la kermesse di Milano. Per l’ultima volata all’ombra della Madunina.
Ci sono coriandoli nell’aria dell’ultimo podio, quando il vincitore della maglia rosa alza il trofeo verso il cielo. La corsa è finita, i tifosi e gli appassionati tornano a casa. Le ammiraglie spengono i clacson e si fanno silenziose. Piazza Duomo smorza le sue luci. Restano in pochi a osservare i frammenti del puzzle raccolto ai bordi della strada. Si girano piano le pagine dei nostalgici ricordi: la smorfia di un giovane ciclista sull’ultimo strappo del Mortirolo, il tifoso che spinge un corridore in difficoltà sulle rampe del Monte Zoncolan, un vecchio che urla a squarciagola il nome della maglia rosa, un bambino sorridente che saluta il passaggio delle ammiraglie. Il cronoman che sfreccia veloce «insaccato» in una tuta fosforescente che fascia il corpo. Sguardi di gente comune cotta dal sole, altrettanti bagnati dalla pioggia scrosciante. La montagna che aspetta il passaggio dei «girini». Una scritta sulla poca neve rimasta sul Passo Gavia: «Pantani vive».