Peppe Vessicchio, maestro di solidarietà

Da icona del Festival di Sanremo e della musica italiana ad ambasciatore dell'Antoniano di Bologna: alla scoperta di un artista dal cuore grande.
04 Febbraio 2019 | di

Il suo «debutto» a Sanremo è stato nel 1986, quando affiancava Zucchero con Canzone triste. «Ma allora i concorrenti si esibivano su basi registrate. L’orchestra ritornò al Festival nel 1990, e quella fu la prima volta anche per me. Diressi Mia Martini in La nevicata del ‘56: un’interprete e un’emozione straordinaria» ricorda il maestro Peppe Vessicchio, una delle «icone» del Festival. Ha partecipato a venticinque edizioni, per quattro volte ha vinto il premio come miglior arrangiatore e per altrettante come direttore d’orchestra. Da qualche tempo Vessicchio accompagna anche le attività solidali della famiglia antoniana: durante lo Zecchino d’Oro è stato testimonial dell’Operazione Pane che ha permesso di donare più di 150 mila pasti alle mense francescane, quindi è stato nominato Ambasciatore dell’Antoniano di Bologna.

Msa. Maestro, un impegno in più... Vessicchio. Tutt’altro, è un grande onore. San Francesco è la figura più emblematica del buon senso, dell’onestà e della coerenza che oggi purtroppo spesso mancano nella vita sociale. Affiancare l’Antoniano è stato un modo per scoprire ancora meglio il valore della solidarietà. Il pane è l’elemento primario alla base di qualunque forma di accoglienza.  

Cosa rappresenta il Festival di Sanremo per lei? Quasi una festa comandata – ride –. A casa mia ci sono Natale, Capodanno, Epifania, Sanremo e Pasqua. In generale, ritengo che Sanremo sia un’occasione di confronto anche tra coloro che non lo amano, o non seguono la musica leggera. È un evento che fa parte della vita sociale.

Ma come è cambiata la canzone italiana in questi anni? Nel mondo anglosassone si distingue tra song e production, ovvero tra canzone e produzione. Nell’attuale panorama molto legato al mercato, la canzone sta progressivamente lasciando spazio alla produzione: dunque molti brani non mantengono più la «vita» sociale che avevano un tempo e spesso hanno un’obsolescenza abbastanza rapida. Anche il Festival ha visto questa trasformazione.

Conta più il personaggio rispetto alla canzone? Agli esordi si sceglievano prima le canzoni che poi venivano assegnate ai concorrenti: al primo Festival erano in gara venti brani e Nilla Pizzi ne eseguì una decina. Dal 1967 arrivarono già abbinate agli interpreti. Tanto più oggi il Festival non può fare a meno di tener presenti i like: la validità del brano si deve modulare anche sulla popolarità del cantante.

Nel suo libro La musica fa crescere i pomodori, lei parla di armonia naturale. In che senso?Sono convinto che l’arte tenda a una rappresentazione della natura. Tutti noi godiamo di un raggio di sole o di un sorso d’acqua: quando la musica riesce ad avvicinarsi a questa condizione, gli organismi viventi la percepiscono come elemento che partecipa in maniera costruttiva, affettiva e amorevole.

La musica fa bene alle piante, ma pure agli uomini... E non soltanto dal punto di vista sentimentale o culturale: è benefica anche per le cellule. Partecipo a esperienze di musicoterapia in reparti oncologici: vibrazioni e buona armonia possono aiutare anche chi deve sostenere cure gravose. Per tutti noi la musica è amica insostituibile.

 

L'intervista fa parte del dossier di febbraio del «Messaggero di sant'Antonio», dedicato al rapporto tra musica e fede, con l'intervento del teologo Brunetto Salvarani. 

 

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Data di aggiornamento: 04 Febbraio 2019
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