Politica: questione di fiducia
Un cattolico «ortodosso e credente che, attraverso l’illuminazione dell’esperienza altrui e quella propria, divenne politicamente umanista e ricettivo di ogni cosa buona e di ogni fede nella libertà e tolleranza civile». Alle soglie dei 70 anni, il 22 novembre 1950, Alcide De Gasperi si «raccontava» così in una lettera. È stato definito il «ricostruttore», il «federalista europeo», e gli è stato riconosciuto un ruolo chiave nella rinascita dell’Italia dopo la terribile ferita della seconda guerra mondiale. Tuttavia De Gasperi, leader della Democrazia Cristiana e presidente del Consiglio dal dicembre 1945 all’agosto 1953, si riteneva soprattutto «un uomo di fede»: «L’abilità – aggiungeva in quello stesso scritto – è al servizio dell’idea che mi conduce». In aprile sono stati 140 anni dalla sua nascita, e ancora oggi la sua personalità viene evocata come punto di riferimento, soprattutto mentre la politica vive una crisi d’identità e di credibilità, e anche le democrazie (non solo in Italia) talora sembrano scricchiolare.
Questione di sguardo
La politica: c’è chi la considera un’arte, chi una scienza, chi uno strumento. Non tutti la ritengono una materia semplice, e c’è chi ha perfino ideato una Political map, come è il titolo del recente libro di Marco Cartasegna del portale d’informazione Torcha, una guida ai rudimenti della politica rivolta soprattutto ai millennials, i più giovani. Comunque la si guardi, «la politica deve aiutare le persone ad affrontare con uno sguardo lungo i problemi che il presente mette sul terreno, senza rimanere legati al contingente quotidiano. De Gasperi ne aveva una concezione creativa: per lui la politica era ciò che aiuta a trasformare il presente in un’occasione di futuro», spiega Paolo Pombeni, professore emerito al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, che ha diretto l’edizione critica degli scritti politici dello statista trentino. De Gasperi era popolare ma non populista, «dichiarava apertamente il suo desiderio di democrazia diretta popolare», aggiunge il professor Pombeni: ma – come si legge in un discorso del luglio 1947 – metteva in guardia da chi adula il popolo «con frasi sonanti e belle dizioni».
«Quando mi parlano di partiti, io li giudico da questo punto di vista: come servono il popolo? – proseguiva –. Oggi si domanda al Paese e ai cittadini una disciplina non al servizio di un partito o di un uomo, ma per la libertà del popolo italiano, indipendentemente da qualunque governo e da qualunque partito». Sulla rivista «Aggiornamenti sociali» lo storico Paolo Acanfora ha ricordato che De Gasperi «aveva un profondo radicamento in una concezione cristiana della vita e in un confronto continuo con il pensiero sociale cattolico». Sicuramente De Gasperi aveva visto lontano su alcuni elementi fondanti: «Innanzitutto era convinto che l’Italia andasse ricostruita attorno a una forma di cultura largamente condivisa che egli, a quell’epoca, ritrovava in una sorta di cattolicesimo di base, un modo di approcciarsi alla vita che poteva coinvolgere tutti, anche i più lontani dalla fede», sottolinea Paolo Pombeni.
Poi considerava la forma costituzionale democratica come una conquista definitiva per il mondo moderno, e una conquista dell’Occidente: «De Gasperi fece la scelta più coraggiosa – continua il docente –: rifiutò qualsiasi proposta di mettere fuori legge il partito comunista, così come gli eredi del fascismo. Intendiamoci: De Gasperi era convintamente antifascista ma sapeva che, in un’ottica costituzional-liberale, la condivisione politica va costruita nella dialettica, e non per imposizioni». De Gasperi poi aveva compreso che il mondo delle Nazioni (oggi diremmo dei sovranismi) era tramontato: «Aveva visto la dissoluzione dell’impero asburgico e aveva vissuto in prima persona le conseguenze dei nazionalismi – spiega Pombeni –. Aveva intuito quello che allora era il sogno di tutti, gli Stati Uniti d’Europa».
La crisi della mediazione
Sono trascorsi almeno settant’anni e il mondo è cambiato velocemente. Già nel 2000 Susan J. Pharr e Robert D. Putnam, docenti ad Harvard, hanno pubblicato un saggio sulle Disaffected democracies, registrando l’insoddisfazione di molti verso le democrazie tradizionali. Sono messe alla prova soprattutto le democrazie liberal rappresentative, quelle in cui i cittadini, con il voto, affidano le chiavi del governo a loro rappresentanti. «Fino agli anni ’70 del secolo scorso, questa forma di democrazia ha dovuto affrontare varie crisi di crescita, sofferte e complicate, ma pur sempre positive», fa notare Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, docente all’Università Mercatorum di Roma. Poi nel sistema capitalistico si è avuta la grande trasformazione neoliberista, la richiesta di una sempre maggiore libertà d’impresa, mentre lo Stato è visto come un soffocante protezionista, e le crisi si sono fatte più difficili. Il vento nuovo ha portato ad attribuire minore legittimità alle classi dirigenti, talvolta guardate con sospetto, «e col tempo questo meccanismo si è tradotto in discredito verso le stesse regole della democrazia, con una dura critica verso le istituzioni – aggiunge il professor Panarari –. I tanti populismi sono sostanzialmente unificati dall’invocazione a una forma di democrazia diretta».
La scolarizzazione più ampia e le nuove tecnologie hanno poi accelerato quella che Panarari definisce una crisi della mediazione: «Le persone acquisiscono sempre più strumenti per giudicare la contemporaneità e si sentono portatrici di un loro punto di vista personale, dunque perdono fiducia verso le figure della mediazione, come i funzionari politici o sindacali – spiega il docente –. Questo innesta processi disgregativi che vanno a colpire la democrazia che invece si basa proprio sulla delega, ovvero sull’attribuzione di fiducia». È lo stesso fenomeno per cui tutti noi possiamo sentirci allenatori della Nazionale di calcio, o magari tutti virologi, professori o politici, e pensiamo che gli esperti veri ci raccontino frottole...
In un contesto così frammentato risulta difficile anche il confronto di posizioni diverse: «Al contrario, assistiamo a processi di polarizzazione che rendono complicato trovare punti di vista comuni», indica il professor Panarari. Tutto questo è ancor più evidente nel tempo di pandemia: «Ci dovrebbe essere un punto di equilibrio tra la dimensione soggettiva e il riconoscimento delle competenze degli esperti – sottolinea –. Invece le tecnologie digitali e la potenziale disponibilità di una miriade di informazioni producono l’opinionismo». Ognuno pensa di avere la verità in tasca e – ancora una volta – viene minata la fiducia che è appunto uno dei pilastri della democrazia. Secondo il professor Pombeni, «la crisi della politica è fondamentalmente di natura culturale. Abbiamo perso la cultura della solidarietà a favore della cultura dell’individualismo e della singolarità». Oggi poi si è smarrita l’idea di costruire con pazienza, un passo alla volta: «La teoria del “tutto e subito” è dominante», aggiunge.
Democrazia a rischio?
«La democrazia è un regime “sempre” in bilico – ha scritto il professor Luigi Di Gregorio –. Per certi versi, questa caratteristica è connaturata alla sua natura di società aperta». Ma allora, oggi nel mondo le democrazie sono più in pericolo che in passato? «Di fronte ai grandi passaggi storici, le democrazie sono sempre in pericolo, perché si aspetta che arrivi qualcuno con la bacchetta magica, il cosiddetto “uomo forte” – risponde il professor Pombeni –. Questa tentazione esiste, quanto più le democrazie non riescono a pacificare le attese degli uomini». A questo si unisce la questione del pluralismo, uno dei cardini della democrazia rappresentativa: «Pensiamo alle concentrazioni in atto nell’industria globale dei mass media o nell’industria tecnologica – rimarca il professor Panarari –: questi settori trattano “oggetti produttivi” che hanno un ruolo decisivo nel formare le coscienze, e la concentrazione rischia di minare il valore del pluralismo».
Con arguzia anglosassone, Winston Churchill osservava che «la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate finora». Dunque, come tutelarla? «Ognuno di noi può avere un ruolo fondamentale: occorre sviluppare uno spirito critico, tanto più nella situazione attuale – dice Massimiliano Panarari –. Per guardare al nostro Paese, la pandemia (come ha notato Giuseppe De Rita, presidente del Censis) ha steso sulla società italiana una specie di glaciazione, uno stato di sospensione perenne: da parte dei cittadini, serve capacità e volontà di uscirne, di reagire. Occorre restare vigili, anche grazie all’associazionismo, al Terzo settore e a tutti quei rami della società civile che sono sempre stati capaci di sopperire alle carenze dello Stato». Restare nella società in maniera operosa è il miglior antidoto contro i virus che possono far ammalare la democrazia. «Io sono un fanatico della democrazia», esclamò Alcide De Gasperi al primo congresso della Dc, il 27 aprile 1946: quell’insegnamento non va dimenticato.
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