Post-capitalismo e democrazia
C’è un aspetto della nostra società capitalistica che non è ancora sufficientemente discusso dagli economisti e dai filosofi. Mi riferisco all’assolutizzazione della categoria di consumatore. Una delle grandi novità introdotte nel Novecento dal capitalismo di matrice Usa è stata la sovranità del consumatore. All’inizio, soprattutto nel primo dopoguerra, l’arrivo di questo nuovo protagonista della vita civile fu accolto come una buona novità, e in parte lo era. Il consumo nei mercati, il consumare, fu visto come una forma della libertà dei moderni, che creava nuove opportunità e nuove uguaglianze: anche se sono un operaio, se non ho studiato, anche se non sono di buona famiglia, anche se non faccio parte dell’élite, quando entro in un negozio con il denaro posso acquistare la stessa automobile dei signori. Nel momento dell’acquisto mi sento uguale ai capi e ai ricchi, non mi sento secondo a nessuno. Questa prima stagione del consumo di massa è stato un passaggio importante della democrazia, prima in Occidente e poi in tutto il mondo (oggi questi fenomeni sono importanti soprattutto in Africa e in Asia). Il denaro non odora neanche di classe sociale: non saprò parlare in modo elegante e forbito, sono figlio di contadini, ma quando vengo nel tuo negozio mi devi trattare con la stessa dignità con cui tratti i signori.
Oggi il consumo sta cambiando natura, perché sta cambiando (è cambiato) il mercato. La globalizzazione, prima, e i social, dopo (con le multinazionali for-profit che li gestiscono, non dimentichiamolo), hanno fatto del paradigma del consumo il nuovo paradigma della democrazia. Il consumo di mercato ha infatti poche regole chiare e semplici: 1. il consumatore è il solo che può decidere sulle proprie preferenze e gusti; 2. se un bene o un servizio mi piace, lo compro, se non mi piace, non lo compro; 3. nel mondo delle cose, una volta che siamo dentro (con potere d’acquisto o con debiti) siamo tutti uguali, non ci sono gerarchie, di nessun tipo; 4. non mi puoi imporre, nel mercato, nulla senza il mio consenso. Il «mi piace» dei social è stato preso direttamente dal mondo dei consumi, dove vale solo ciò che piace e non piace al singolo individuo. Quindi, nessuno mi può imporre, da fuori o dall’alto, scelte e beni che non mi piacciono, che io non abbia deciso, liberamente, di comprare o di non comprare. Tanto che un assioma della teoria economica liberale (la cosiddetta Public Choice), dice che il mercato non agisce a maggioranza (come la politica) ma all’unanimità, poiché è basato sul contratto, la cui logica richiede il consenso di tutti i partecipanti allo scambio (Buchanan e Tallock).
Dove può spingere questo ragionamento? Se il consumatore diventa il nuovo cittadino globale, la domanda diventa: questi consumatori-cittadini potranno accettare di fare cose che non piacciono loro? Potranno accettare, ad esempio, leggi che non amano, subirne le conseguenze anche quando non piacciono? Accetteranno la coercizione dell’autorità, oppure stiamo formando nuovi cittadini che vorranno pagare solo le multe che vogliono loro, che andranno in carcere solo se saranno d’accordo? Fino a oggi (o a ieri), le leggi e le sanzioni venivano decise democraticamente, quindi dalla maggioranza dei cittadini e con garanzie delle minoranze, ma le leggi in vigore non richiedono il «mi piace» di ogni singolo cittadino, né tantomeno di chi deve rispettarle. La domanda seria allora diventa: sopravviverà la democrazia al post-capitalismo consumista del XXI secolo?
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!