Quando Vaia urlò sopra le Alpi
Emanuele non mi ha mai chiamato molto spesso. Abita in Valsugana, valle trentina. Lo considero uno dei guardiani fedeli della piccola e bellissima Val di Sella, sotto le rocce impervie dell’Altopiano di Asiago. Due anni fa, quasi metà di autunno, mi telefonò molto presto sull’orlo delle lacrime. Mi disse: «Non vedremo mai più la Val di Sella come l’abbiamo conosciuta».
Allora non sapevo cos’era successo, cosa stava ancora succedendo. Dal 26 ottobre una tempesta stava squassando il nord est, le Dolomiti, il Trentino, il Veneto, il Friuli. È stata la tempesta più violenta dal dopo guerra. Venti a 200 km/h stavano abbattendo 14 milioni di alberi, per un totale di 8,6 milioni di metri cubi di legname. Il bilancio finale sarà di 42 mila ettari di boschi danneggiati.
Quale sarà stato, nella notte del 29 ottobre 2018, il rumore di migliaia di alberi che stavano cadendo tutti assieme, spezzati non al piede ma in mezzo al fusto da un vento mai visto prima? I primi abeti, quelli posti nelle porzioni più esterne dei boschi, hanno cominciato a oscillare forte, a piegarsi, a rimbalzare attorno al proprio asse più volte, fino a cedere e poi spingere tutti gli altri giù per interi versanti, come tessere del domino.
Quel frastuono da bombardamento è quello che hanno dovuto ascoltare, chiusi nelle loro case, gli abitanti delle valli dolomitiche quella notte di due anni fa. Hanno dato un nome di donna a questa «tempesta perfetta». È stato il regalo di un uomo, Ionannis Skouros, un giornalista renano di origine greca, alla sorella, Vania. L’Istituto di Meteorologia tedesco, infatti, vende i nomi di alte e basse pressioni per finanziarsi. In valle, quella notte, vi erano due artisti, Roberto Mainardi e Vera Bonaventura con i loro registratori: l’urlo di Vaia non è andato perduto. Nei mesi successivi è stato ascoltato da migliaia di visitatori in una audio-installazione nella stessa Val di Sella, a Padova, a Belluno e Verona.
La tragedia di Vaia è prima di tutto quella del rapporto dell’uomo con il paesaggio che lo accoglie e lo ha visto crescere, e che lui stesso ha contribuito a modellare. Tolte, infatti, le facili (e legittime) polemiche sulla scarsa manutenzione dei versanti, sulla gestione frammentata del patrimonio forestale, sui tagli (questa volta economici) che si sono abbattuti anche su questo settore, resta il dato oggettivo di un evento naturale che non si era mai visto, ma che è ingenuo definire straordinario. Quando il vento si scaraventa con quella intensità non c’è strategia selvicolturale che tenga.
Al di là dei rimpianti personali per un panorama radicalmente trasformato, ci si chiede se il discorso pubblico non debba piuttosto declinarsi nella ridiscussione del nostro sguardo sulle «nostre» montagne. Gli eventi catastrofici in Europa, negli ultimi anni, si sono moltiplicati (gli ultimi, in ordine cronologico, le alluvioni di inizio ottobre in alta Val di Tanaro e nella zona del Col di Tenda, dove sono cadute in 24 ore le piogge di sei mesi); persistere a trattarli come emergenze, continuando poi sulla nostra strada per lasciare sempre le stesse impronte sul paesaggio che decidiamo di sfruttare, appare quantomeno naif.
Certo, il bosco si può rigenerare, ma solo accettando i tempi della natura (ci vorrà un secolo prima che le ferite inferte da Vaia si rimarginino), che sono molto più lenti di quelli che ci siamo scelti per noi. Potrebbe essere utile riscoprire il concetto di limite che la cultura moderna ha deciso di ignorare, accettando una delle poche verità inconfutabili della natura: che essa non sta lì per noi.