Resistere alla globalizzazione
Gli studenti italiani stanno scendendo in piazza spesso e volentieri per una battaglia dai contorni imprecisati, ma che gode del favore generale: salvare il pianeta.
È una causa generica, che fa sentire buoni coloro che la difendono, i quali però non si domandano molto di più. Non sanno, ad esempio, quante cose sarebbero loro precluse se si effettuasse quella diminuzione del consumo di energia necessaria per eliminare effetti inquinanti. Non sanno che i telefonini di cui fanno uso continuo e spesso ossessivo sono fatti di una componente, il coltan, che proviene da miniere africane. E che proprio per aggiudicarsi questo prezioso minerale molti Paesi del continente vivono in condizioni di penoso sfruttamento e di guerra endemica. E gli esempi di questo tipo da citare sono molti.
Ma non sono solo i giovani a dichiararsi favorevoli a cause per le quali non sono disposti a compiere il più piccolo sacrificio, dal momento che rinunciare a un giorno di scuola non si può certo considerare tale. Siamo tutti noi che scegliamo ormai abitualmente di comprare nelle catene prodotti che contribuiscono alla più violenta globalizzazione, solo perché costano meno e sono di buon aspetto, invece che nei negozi delle nostre città, presso i nostri artigiani.
In fondo lo sappiamo benissimo: ogni volta che andiamo, per esempio, in qualche catena di negozi di abbigliamento o di mobili – dove troviamo vestiti o armadi gradevoli a prezzi stracciati – contribuiamo a far chiudere laboratori, piccoli negozi, fabbriche di mobili nostrane, falegnamerie, tappezzieri e tutti quei punti vendita di prodotti loro necessari. Certo, si tratta di prodotti che non durano tanto – ma meglio, così ne compriamo dei nuovi – e che sono uguali a quelli che vediamo ormai in tutto il mondo (e forse avere oggetti uguali agli altri può anche essere considerato rassicurante...). Ma non importa, prevale l’idea del tutto e subito, della facilità ed economicità dell’acquisto. Continuiamo anche a frequentare i centri commerciali che uccidono il piccolo commercio e svuotano i centri abitati. A questo poi possiamo aggiungere gli acquisti su internet, che costano sempre un po’ meno di quelli nei negozi e vengono consegnati comodamente a casa propria. Certo, non si possono misurare scarpe e vestiti, ma si possono rendere gratuitamente se non piacciono, quindi poco male. Ho sentito che molti ricorrono a questo trucco: vanno in un negozio a provare scarpe o vestiti, e poi li ordinano sul web, senza preoccuparsi del danno che infliggono al negoziante. Tant’è vero che – pare – qualche negozio è arrivato a chiedere 10 euro a chi prova senza comprare.
Ma la cosa peggiore è l’acquisto di libri, che non si devono provare, né vedere prima per motivi estetici, quindi non ci sono ostacoli all’acquisto online. Così si spiega la morte delle librerie, ormai diventate negozi rarissimi nelle città: le poche rimaste spesso si devono abbassare a vendere magliette, borse, quaderni, giocattoli… Trovare una libreria vera, con libri veri e non solo gli ultimi successi commerciali, una libreria in cui si possono reperire volumi di cui non si conosceva l’esistenza, in cui fare delle scoperte, è diventato quasi impossibile.
Ma siamo noi che uccidiamo il nostro mondo abitato: anche i negozi fanno parte dell’ambiente, della cultura di un popolo. A questo si aggiungono poi i posti di lavoro persi, la miseria in cui piombano improvvisamente intere famiglie. Non possiamo incolpare la globalizzazione di tutto questo, la globalizzazione non pensa e non vede, siamo noi che dobbiamo pensare e vedere, e non barattare ogni cosa per qualche comodità, per qualche piccolo risparmio. Resistere alla globalizzazione richiede sacrifici, le manifestazioni non bastano.
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