A proposito di... bellezza!
Un libro che lessi con molta attenzione anni addietro si intitolava Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale. Lo aveva pubblicato la Costa & Nolan di Genova, che credo non esista più, e lo aveva scritto un sociologo inglese allora molto giovane, Dick Hebdige, di origini proletarie e che chiaramente vedeva o viveva da vicino le cose che discuteva. Nella swinging London era cominciata negli anni dei Beatles la voga di intervenire sul proprio aspetto, truccandosi e addobbandosi, e più tardi tatuandosi e facendosi il piercing, rifiutando insomma l’aspetto che la natura ci aveva dato, un modo di ribellarsi non tanto alla società quanto alla natura. Il rifiuto delle convenzioni sociali, ma sotterraneamente, mi sembrava, anche il non accettare il proprio aspetto, ciò che si era, a partire dalla nostra apparenza.
Quella voga era dilagata altrove, al tempo in cui i giovani credevano di essere una classe e di poter cambiare il mondo, di imporre la propria visione del mondo e i propri desideri. Essi consideravano questo «stile innaturale» come qualcosa di rivoluzionario, un gesto di rivolta contro la società e i suoi costumi. Legate al benessere di quegli anni, le aspirazioni dei giovani furono sconfitte politicamente (il ’68 e dintorni) ma ne restò dapprima soffocata e poi risorgente in modi sempre più massicci, quasi totalizzanti, in un contesto del tutto nuovo, la convinzione di essere qualcuno se ci si differenziava vistosamente dagli altri. Tutti diversi, oggi, i maschi per esempio tutti barbuti ma diversamente barbuti, e dunque tutti uguali: il massimo di un presunto individualismo (da web) corrisponde al massimo di conformismo, e tutti sono convinti di esistere perché tutti dicono la loro su tutto ma nessuno che ascolti gli altri se non per dire «io penso che»: io sono io, unico e imprescindibile! La finzione del pensare è la cosa più avvilente del popolo odierno, che pensa in verità quello che gli si dice di pensare, che viene invitato in mille modi a pensare.
Ma torniamo al «fascino di uno stile innaturale» che ha travolto ormai, dapprima nello scimmiottamento di quel che si vede in televisione o sui giornali, anche le povere e i poveri, le vecchie e i vecchi, tutti. La «moda» è un concetto di ieri, ognuno per sé, liberamente. Ma continuando a copiare dagli altri, dai visti in strada. Una delle rarissime libertà che sono rimaste è quella di conciarsi come si vuole, grazie anche, giovani e vecchi, alla macrodiffusione delle bancarelle cariche di «ciaffi e sbrendoli», di scarti e residui venuti da chissà dove. Per di più anche adulti e vecchi si fanno tatuaggi e li mostrano orgogliosi e a volte sono davvero mostruosi. Per amore di sé o per odio di sé?
Ci si chiede: quali criteri di bellezza ci offre la società in cui viviamo? Certamente non quelli che hanno dominato per secoli, donatici dall’antica Grecia. Non l’armonia e la grazia, non un’idea di perfezione e di un’eleganza naturale, bensì un’idea di esibizione, una smania di diversità che ha travolto tutti proprio nel mentre che di diverso è rimasto ben poco... L’idea dominante e sotterranea è forse che è bello il brutto? Qualche tempo fa mi è stato chiesto di dire cosa io considerassi ancora bello, e risposi: soltanto la bellezza che si ignora, la bellezza senza esibizione, la bellezza senza vanità. La bellezza di chi non sa di essere bello: quella dei bambini e quella degli animali prima che gli adulti li rovinino con le loro moine.