Rinato da mio figlio
Parlare con Gianluca Nicoletti, scrittore e conduttore radiofonico, è come entrare in un vortice di parole, dove i concetti sembrano prender forma da un materiale magmatico che solo lui sa cristallizzare all’istante, in modo imprevedibile, mischiando testa e cuore. Anche se «cuore» forse è un termine troppo stucchevole per uno come lui che cerca parole fuori dal coro, anche se sono aguzze o stonate. È per questo che è una delle voci più controverse del panorama radiofonico italiano. Un passato in Rai, anche in incarichi importanti, poi l’approdo a Radio 24, brillante autore e conduttore di programmi come Melog o Il treno va. È nel pieno del successo, quando un fatto gli cambia la vita, facendogli rileggere in filigrana il suo modo di essere: «Mi accorgo che il mio secondogenito, Tommy, è autistico. Pensa al paradosso: io che vivo parlando, genero un figlio che non parla». All’inizio è uno shock, poi lo sgomento diventa consapevolezza. Un percorso che Nicoletti scandisce in tre libri, l’ultimo dei quali Io, figlio di mio figlio (Mondadori, 2018) racchiude l’epifania della sua vita: «Sono un Asperger, mio figlio mi ha scoperto a 62 anni!». Anche lui con un disturbo dello spettro autistico. La neurodiversità gli appartiene da sempre, è un peso e una provocazione, una condanna e una risorsa.
Ce n’è abbastanza per capire che farsene di quella doppia sfida. L’obiettivo diventa quello di interrompere il circolo vizioso del pregiudizio, che grava su tutti coloro che hanno un cervello diverso. È anche per questo che Nicoletti fonda «Cervelli Ribelli», una piattaforma, un laboratorio, una piazza nel web, dando a tutti la possibilità di partecipare alla rivoluzione silenziosa di chi ragiona fuori dagli schemi, offrendo al contempo a suo figlio e a quelli come lui la possibilità di sperimentarsi in forme nuove. Non a caso per l’intervista siamo a Roma, in quelli che probabilmente erano i garage di una palazzina del quartiere Prati e che Nicoletti ha trasformato in un hub all’americana. Tommy, un ragazzone con una nuvola di capelli crespi, è adagiato sul divano a guardare un cartone. Il nostro parlare lo disturba, ma rimane imperturbabile: si limita a mettere la mano a coppa sull’orecchio, per bandirci dal suo campo d’attenzione. Ci spostiamo nella saletta di registrazione da cui Gianluca Nicoletti trasmette i suoi programmi.
Msa. Come funziona un «cervello ribelle»?
Nicoletti. Non ho un’idea di «cervello normale». Ti dico come vedo io la realtà, che per me è una continua corsa, trovandomi sempre avanti rispetto agli altri. Ciò dà forti problemi d’integrazione, perché quando una persona parla, sono convinto di sapere quello che mi vuol dire e già do la risposta. Proprio io che lotto contro i pregiudizi, sono innamorato del mio pregiudizio. Questo atteggiamento influisce su tutto: attività, modo di pensare, relazioni. È come stare in una discesa, senza freni, mentre il mondo cammina su una sala pianeggiante e si può fermare quando vuole.
Come ti spiegavi questo tuo modo di essere prima di sapere della sindrome di Asperger?
Non me lo spiegavo. Gli altri continuavano a dirmi: «Non mi ascolti», «non mi guardi in faccia», «dammi il tempo di finire», «ma tu che ne sai?». Per il resto del mondo la realtà è una sequenza ordinata. Per me tutto viaggia su delle spirali, che entrano ed escono da stratificazioni diverse dell’esistenza. Se non ti dicessi queste cose diresti di me che sono un po’ strambo o, peggio, un presuntuoso.
Qual è il giudizio che più ti ferisce?
Quando mi dicono che sono uno che «se la tira». In realtà io sono tremebondo ogni volta che mi metto in relazione con un altro essere umano. Posso sembrare aggressivo, ma è la mia tecnica di difesa. Per tirarmela dovrei avere un concetto altissimo di me stesso, invece mi sento un adolescente con il vestito fuori moda, quello che ha letto meno degli altri, che non riesce a trovare sintonia con il resto del mondo. Non sono cose che da sole ti fanno sanguinare il cuore, ma che ti dicono che la vita poteva essere meno difficile. Però poteva anche essere meno saporosa, colorita, divertente.
Che cosa vorresti dagli altri?
Ognuno di noi vive nel riflesso che riesce a cogliere nelle persone che ha intorno. E la cosa che presumo, nel bene e nel male, nel disagio e nella vertigine, nella passione o nel disprezzo, è di riuscire a lasciare dei segni indelebili dentro le persone proprio per questo mio modo d’essere difficilmente assimilabile. Quindi qualcuno potrà dirti che sono l’uomo più infame o più falso o dirti «ancora me lo ricordo perché era strano». C’è qualcosa di me che rimane immutato, anche se sento di aver vissuto cento vite diverse. Questo è il tratto autistico. Sono un altro e sono la stessa persona. Sono il loop continuo di me stesso.
Tuo figlio che posto ha in tutto questo?
Tommy è il rabdomante che ha trovato una vena sotterranea che non immaginavo esistesse, è la persona che mi ha scoperto. È una sorta di Buddha meditabondo e nello stesso tempo vigile, attento, selettivo e vindice di ogni atteggiamento che lui giudica non in linea con il suo rigore. In lui ritrovo la molla che scatena la mia spregiudicatezza, di cui mi pento immediatamente. Non sai quante volte mi sono mangiato la lingua troppo tardi e mi sono rovinato opportunità di lavoro, di relazione, di vita e di amicizia. Oggi sento così profondamente questa parte di me stesso che non me la censuro più. Non sono per questo diventato un incontrollato, uno che non ha attenzione per le sensibilità altrui, ma sento ogni tanto il bisogno di far sgorgare ciò che provo veramente, prendendomene la responsabilità.
Qual è la lezione di Tommy?
Tommy ti mostra che cosa sarebbe un mondo in cui le persone si dicessero subito quello che pensano l’una dell’altra. All’inizio sarebbe un po’ spiazzante, perché tutti siamo abituati a degli ammortizzatori nei rapporti con gli altri, ma poi risparmieremmo tanto tempo, delusioni e dolori. Invece oggi perdiamo settimane in convenevoli per arrivare poi allo stesso risultato.
Com’è il rapporto tra te e Tommy?
Ognuno è custode, guida, carceriere dell’altro che a sua volta è carcerato e custode. Il rapporto tra noi è quello che c’è tra il vampiro e la vittima che sceglie: il vampiro ti morde e ti succhia il sangue, ma ti dà anche l’immortalità. Tommy, che mi succhia il sangue, come ogni figlio nelle sue condizioni, mi ha però spalancato un mondo che non immaginavo. Fammi un esempio di questa scoperta.La sera le persone vengono a cercarci qui, per respirare un’aria che secondo loro rilassa, che è l’aria appunto dell’abbandono dei convenevoli, della necessità di essere. Per me è davvero una grande scoperta. Mi sento cullato su una nuvola, non ho bisogno di nulla. Al contrario, nella vita di ogni giorno facciamo di tutto per creare delle condizioni di disagio per gli altri, per poterli dominare. E invece è il tempo che va dominato e per dominare il tempo bisogna stare rilassati. Non è cosa semplice. In una fase scellerata della mia fanciullezza ho fatto il paracadutista sportivo. Gli istruttori erano arrabbiatissimi perché nel minuto prima di aprire il paracadute andavo in loop, incapace di mantenere l’assetto. Finalmente un giorno ho capito il perché: ero rigido. La volta dopo mi sono appoggiato nell’aria come se fosse acqua e ho sentito che mi sosteneva. Non ero più un essere scomposto che lottava con l’aria, ma ero morbido come un aliante. L’aria mi restituiva la carezza, quando prima mi prendeva a schiaffi. Questo è un esercizio che mi ha accompagnato tutta la vita: abbandonarsi per diventare leggeri.
«Basta, ti ho detto tutto», conclude Nicoletti. E so che equivale al gesto di suo figlio che mette la mano a coppa sull’orecchio per buttarti fuori dalla sua sfera d’attenzione. Ritorniamo nel cuore dell’hub. Sul tavolo Tommy è circondato da pennarelli e tempere. Intorno i suoi quadri dai mille colori accesi sono l’istantanea sul suo mondo. Sta dipingendo pezzi di cartoncino a forma della sua famosa giraffa, per una linea di borse coloratissime. Intorno c’è una strana calma, come fossimo al centro del tornado, sospesi nell’aria senza più scalciare.
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