Ripartire dal carcere

Immaginare e realizzare percorsi virtuosi e di riscatto per le donne ristrette in carcere si può. Anche se sono poche, in percentuale, e spesso recluse in contesti non strutturati a dimensione di donna.
06 Ottobre 2025 | di

«Non indosso i tacchi da dieci anni, perché da dieci anni il mio mondo è dietro le sbarre». «Piangeva la detenuta mentre me lo diceva. In carcere le scarpe col tacco non sono permesse. In carcere si è tutte uguali, così come tutte uguali sono le giornate», racconta Alessia Dall’Antonia, educatrice professionale, ideatrice e coordinatrice del progetto «Creatività inclusiva», realizzato dall’Unione italiana ciechi e ipovedenti (Uici), in collaborazione con il Lions Club e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (CRT). Ecco allora che un tacco, un bell’abito, i capelli in bella piega, il giusto make-up, l’accessorio raffinato, possono fare la differenza, trasformando il grigiore in un arcobaleno e la monotonia in un momento di festa.

Che le luci si spengano e lo spettacolo abbia inizio. Oggi non c’è tempo per la tristezza, oggi si può solo sognare. A sfilare, lo scorso 5 giugno all’interno della casa circondariale torinese «Lorusso e Cutugno» (più conosciuta come Le Vallette, ndr), sono state diciannove indossatrici molto speciali: detenute e persone cieche e ipovedenti; per queste ultime la passerella è stata adattata con accorgimenti tattili per facilitare la mobilità autonoma. «Ho sfilato in coppia con Veronica, detenuta di 27 anni – dice Letizia Paffumi, vicepresidente Uici –. Mi ha fatto una gran tenerezza. Si è commossa perché ha potuto indossare i jeans. Ho 65 anni, alla mia età il tempo si vorrebbe fermarlo. Lei invece vorrebbe farlo correre, perché la aspettano trent’anni di detenzione». Gli abiti, su disegno della stilista Aythya, sono stati realizzati nell’ambito del laboratorio sociale e professionale «Rione», gestito dall’associazione «Esseri umani» che opera all’interno del carcere di Torino. Da marzo a metà maggio, un gruppetto di donne cieche dalla nascita, dai 48 ai 75 anni, si sono unite per dar vita agli abiti da indossare. Oltre a Letizia, le altre sono Elisabetta, Titti, Enza, Ida. Guardarle cucire senza pungersi, pur non vedendo, per le detenute è già stato uno spettacolo.

«L’iniziativa ha evidenziato quanto due mondi, carcere e disabilità, apparentemente lontani, abbiano invece molto da dirsi – spiega Dall’Antonia –. La bellezza è un tema fondamentale, non solo per le detenute, ma anche per le cieche, che non possono guardarsi allo specchio. “Sono agli arresti domiciliari senza aver fatto nulla”, mi disse una volta una signora che stava perdendo la vista. E, in effetti, per alcune di loro le pareti di casa non divergono tanto dalle mura di un carcere». Il progetto, reso possibile da una rete – «Fondazione Casa di Carità, Arti e Mestieri», che opera per la crescita sociale e lavorativa dentro e fuori dal carcere; cooperativa «Patchanka», che gestisce la sartoria «Il Gelso», con un’unità di produzione all’interno del carcere; laboratorio orafo «Forma e Materia» della Città di Torino, dove lavorano persone con disabilità psico-fisica, i cui monili sono stati indossati durante la sfilata; associazione «Mana», che propone laboratori di make-up therapy, rivolti a donne con disabilità vittime di violenza –, ha fatto emergere anche molti spunti di riflessione. «Prima vedono la disabilità, poi la persona. Avviene così anche per le detenute. La prima cosa che vede la gente è il reato. Questo ci accomuna, altre cose ci differenziano. Io non ci vedo, non posso guidare, ma sono libera», dice una signora ipovedente. «Sono una detenuta, dovrò stare in carcere per un lungo periodo di tempo, vivo una forte privazione della libertà, ma è un fatto temporaneo. Io vedo e quando uscirò potrò riprendere a guidare, a essere totalmente autonoma». 
Madri in cella

Secondo il Rapporto «Senza Respiro» dell’associazione Antigone, al 31 marzo 2025 erano 2.703 le donne presenti nelle carceri italiane, pari al 4,3% della popolazione reclusa complessiva, che supera le 60mila persone. In Italia esistono soltanto tre Istituti di pena interamente femminili (erano quattro fino a quando il carcere di Pozzuoli-Napoli non è stato chiuso, a seguito del terremoto avvenuto nella primavera 2024). Si tratta degli istituti di Roma, Rebibbia femminile (con 375 presenze, è il più grande carcere femminile d’Europa), di Venezia-Giudecca (102 presenze), e di Trani in Puglia (102 presenze): recludono 579 donne, ovvero meno di un quinto delle donne complessivamente detenute in Italia. La maggior parte, infatti, vive nelle sezioni femminili ospitate all’interno di carceri a prevalenza maschile, e quindi costruite a misura di uomo. Anche la formazione in vista del reinserimento sociale e professionale è per lo più rivolta agli uomini. «Sono stata fortunata perché ho incontrato l’associazione “Voci di dentro” che mi ha offerto un’opportunità di lavoro. Sono stata assunta da un ristorante come aiuto cuoca, addetta alle pulizie, una sorta di jolly. Oggi non posso più farlo per problemi di salute, ma mi manca tantissimo, anche perché a mio carico ho un figlio disabile», racconta Giovina, 53 anni. Per lei le porte del carcere si erano aperte per reato di furto. «Mi sono sposata a 33 anni con un uomo che da principe si è presto trasformato in diavolo. Così anch’io ho fatto cavolate su cavolate, che ho pagato. Sono rimasta dentro due anni – dice -. Spiegare che cosa significa a chi sta fuori non è possibile. La solitudine è la condizione primaria, non fai che pensare e ripensare e, se hai figli, il dolore per la loro lontananza è immenso. Quando mio figlio mi veniva a trovare, indossavo una maschera per non fargli capire la mia sofferenza. Non era giusto dargli un peso così grande. A sorreggermi è sempre stata la fede. Sono devota alla Madonna e a padre Pio. Dopo tante difficoltà, a loro chiedo salute e tranquillità». 

Per le donne con bambini piccoli, la legge 62/2011 prevede che «in relazione al beneficio della detenzione domiciliare, viene dichiarato che l’espiazione di almeno un terzo della pena o di almeno quindici anni, può avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri o, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, o in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. In caso di impossibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa può essere espiata nelle case famiglia protette allo scopo realizzate». La bresciana suor Nicoletta Vessoni, responsabile nazionale delle oltre 200 consacrate che operano nei penitenziari e impegnata sul fronte della giustizia riparativa, oggi è al servizio dei detenuti della casa circondariale di Catanzaro, ma ha alle spalle anche la gestione di una casa di accoglienza per donne in difficoltà, in Sardegna, a Sassari. «Dal vicino carcere di San Sebastiano ci inviavano le detenute incinte, o con figli piccoli, per le quali è prevista la possibilità di scontare pene alternative. Quando sono arrivata, era appena nato il bambino di una donna sudamericana e, un giorno prima di ripartire, nacque la bimba di una nigeriana di cui avevo seguito la maternità. Questo fatto mi è piaciuto tanto simbolicamente: ero stata in quel luogo per un periodo compreso tra le nascite di due neonati stranieri». 

Anche il Giubileo in corso è molto focalizzato sulla realtà del carcere. Non solo perché papa Francesco, dopo San Pietro, ha aperto la Porta santa a Rebibbia, ma anche perché presso l’Info point del Giubileo, in via della Conciliazione 7, si possono trovare le borse che riportano il logo dell’Anno santo realizzate dalle detenute della casa circondariale «Carmelo Magli» di Taranto, nell’ambito del progetto «Made in carcere» di Luciana Delle Donne, fondatrice della cooperativa sociale «Officina creativa». Il materiale utilizzato è composto, in parte, da tessuti e oggetti usati nel 2016 per il Giubileo straordinario della Misericordia, e poi recuperati. Questo modello di economia generativa, mentre riduce l’impatto ambientale, dando lavoro alle detenute, favorisce anche l’inclusione sociale, perché l’obiettivo ultimo è l’acquisizione di competenze in vista del reinserimento nella vita civile. (Continua...)

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Data di aggiornamento: 06 Ottobre 2025

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